di Vittore Fossati, Giorgio Messori; Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 2007, 138 pp., € 18,00 ISBN 978-88-8103-457-4Diabasis finalmente pubblica l’esito di questa avventura dello spirito avviata da Fossati e Messori ormai dieci anni or sono e proseguita per altri cinque, accompagnandosi ma soprattutto facendosi attrarre “da poeti e pittori che avevano messo il paesaggio, e l’arte di rappresentarlo, in un punto vitale della loro opera e dei loro pensieri.”
Non tanto un viaggio d’istruzione però, come i due vorrebbero modestamente far intendere, ma un percorso di raffinata verifica, amabilmente condotta per il tramite del confronto diretto coi luoghi e le loro rappresentazioni, ricorrendo ciascuno al proprio specifico taccuino ma specialmente confidando nel loro dialogo fitto e continuo, così che alla fine “molte cose scritte nascono dal fotografo, e alcune inquadrature sono state magari suggerite dallo scrittore.” Ciò che ne è risultato non è una ricognizione fotografica accompagnata da un testo, come accadeva ad esempio per Gianni Celati con Luigi Ghirri, certo tra i riferimenti affettivi e generazionali dei due autori, quanto semmai uno sviluppo del modello messo a punto da Strand e Zavattini (Un paese, Torino, Einaudi, 1955; nuova ed. Firenze - New York, Alinari - Aperture, 1997) dove il legame allora già stretto tra parola e immagine si fa qui imprescindibile e fondante. Siamo ora in presenza di due coautori distinti non di due autori diversi, e per questo risulta difficile concordare con Marco Belpoliti (”Alias”, 9-6-2007: 18) quando afferma che “La voce di Fossati nel libro non c’è – poiché è stato scritto da Messori – ma ci sono i suoi sguardi e ciò che di questi sguardi ci dice lo scrittore”, come se la sola mediazione possibile fosse la parola. Sin troppo facile sarebbe ribaltare la direzione di questa lettura per rivendicare una prevalenza del fotografico; non si darebbe con ciò ragione dell’esito di questo progetto, per il quale è più utile ricorrere alla definizione di “iconotesto” così come è stata messa a punto in area francese (Alain Montandon,a cura di, Iconotextes, Actes du colloque international tenu à l' Université Blaise Pascal, Clermont-Ferrand, 17-19 mars 1988, Paris, CRCD Clermont-Ferrand, Ophrys, 1990; nuova ed. 2002) e utilizzata recentemente ad esempio da Michele Vangi (Letteratura e fotografia, Pasian di Prato, Campanotto Editore, 2005) a proposito – tra gli altri – di W.G. Sebald, con cui Messori condivideva una affettuosa ammirazione per Robert Walser, per quel suo sguardo stupito sull’incanto del mondo, di ogni porzione di mondo, che è anche una delle qualità migliori dei nostri due autori, forse la consonanza segreta che ha fatto crescere negli anni un’amicizia profonda, nata sotto il segno di Ghirri.
Questo “libro illustrato, qualcosa che si può seguire leggendo e guardando” è lo spazio di riflessione offerto da Fossati e Messori, che hanno concepito l’opera sulla permeabilità dei due mezzi espressivi come sulla ricchezza della loro corrispondenza inesausta, senza rifiutare il modello domestico degli album ricordo. Non è solo l’insistenza affettuosa dello sguardo però a dar corpo a queste osservazioni incrociate, a far affiorare una malinconia che è stupita e precisa a un tempo, traducendosi in meticolose osservazioni, attraversata dalla memoria di parole e figure depositate nel tempo da una scelta compagnia di viandanti, di cui si dà conto in un atlante degli affetti pudicamente camuffato da Nota bibliografica, a chiusura del volume.
Con loro si muovono nella ineludibile corporalità del “paesaggio terrestre”; non per verificare un dato di realtà però, quanto piuttosto per saggiare la possibilità e la tenuta delle sue rappresentazioni, nella convinzione – condivisibile, ovvio – che la visione non può che essere “sempre il ricrearsi di un visibile”. Per questo credo si sono mossi alla ricerca di un tempo inattuale (ma non “perduto”) con un agire da archeologi dello sguardo intenti a rilevare in situ le ragioni delle inquadrature di Courbet come dei motivi di Cézanne, a indagare la profondità e le stratificazioni di un’idea, riconoscendo infine che la sola cosa visibile è un simulacro. Inevitabile e necessario però, perché “abbiamo bisogno di nomi, di luoghi immaginati e immagini che altri ci hanno regalato, nomi e immagini che possono condurci altrove (…) solo per sperare di riconoscere nel mondo un luogo a cui volere ancora appartenere.”
Indice del volume
09 Premessa
13 Paesaggio terrestre attorno a Villa Minozzo
29 Finestre in Engadina
39 Non è ancora buio
55 La via di Tetrarca
73 Le cave, la città
89 I motivi di Cézanne
101 Il cielo a Delft
111 Eldena
125 A Capri
135 Indice delle illustrazioni
137 Nota bibliografica
Pierangelo Cavanna
domenica 30 settembre 2007
Viaggio in un paesaggio terrestre
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Etichette: Libri
sabato 29 settembre 2007
Storia e fotografia: Rappresentazioni della guerra e della violenza nel XX secolo
Nell'ambito del FESTIVAL DELLA STORIA
DIS-UGUAGLIANZE
Arezzo, 27-28-29 settembre 2007
29 SETTEMBRE 2007
ore 10,00
Storia e fotografia: Rappresentazioni della guerra e della violenza nel XX secolo
a cura della Società italiana per lo studio della fotografia
Luigi Tomassini (Università di Bologna): Intoduzione
Giovanni Fiorentino (Università della Tuscia): L’occhio che uccide. Comunicazione visiva e rappresentazioni della violenza nel XX secolo
Adolfo Mignemi (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia): La rappresentazione fotografica della violenza bellica fra Seconda Guerra Mondiale e Resistenza
La fotografia sta entrando sempre più fra gli strumenti indispensabili nella “cassetta degli attrezzi” dello storico. Accanto al suo significato come fonte per la storia, occorre considerare anche il fatto che la fotografia, con i suoi derivati, è un potente mezzo di comunicazione visiva che come tale agisce nella storia, e può influire sul corso stesso degli eventi.La fotografia non è quindi solo una fedele e oggettiva riproduzione degli eventi, ma è in larga misura culturalmente e storicamente determinata. Per capire questo aspetto si è scelto di trattare un tema, quello della violenza in guerra, che si presta a una analisi approfondita non solo del tema delle diseguaglianze, ma anche dei condizionamenti culturali che caratterizzano la produzione e la diffusione dell’immagine fotografica. La violenza bellica infatti è l’espressione forse più forte della dis-uguaglianza, la conseguenza estrema della tensione che si crea fra fra entità che si definiscono come diverse e nemiche e tendono all’annullamento dell’avversario. D’altra parte la fotografia di guerra - e in particolare della violenza estrema in guerra - è uno dei casi in cui la “visibilità” delle immagini trova un limite evidente di ordine culturale. Secondo le epoche e i contesti, varia molto la rappresentazione accettata della violenza, e certe fotografie estremamente crude e violente sono sottoposte a censura o autocensura; nello stesso tempo in cui si assiste ad una “estetizzazione” delle rappresentazioni della guerra. Il fatto che nel mondo attuale le immagini della violenza siano sempre più crude e pervasive, pone quindi allo storico una duplice domanda, relativa sia al fenomeno in sé, ovvero alla crescita della violenza diffusa e praticata, sia alle sue rappresentazioni, ovvero alla evoluzione delle concezioni relative alla “moralità” comune e diffusa della visione della violenza.
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Etichette: Fonti fotografiche per la storia, Iniziative
Photography. Crisis of History
A cura di Joan Fontcuberta, Barcelona, ACTAR, [2003]ISBN 84-95273-50-0, pp. 253, € 18,00
Il volume raccoglie i contributi di diversi studiosi, alcuni dei quali presentati al simposio dedicato a The History of Photography Revisited, tenutosi a Barcellona durante la Primavera Fotogràfica, edizione 2000, e offre una serie di interessanti elementi di riflessione intorno alle ragioni e sulle prospettive della ormai lunga stagione di crisi della storiografia fotografica, collocandola – come fa Fontcuberta nell’intervento in apertura – nel più ampio contesto che ne ha segnato la progressiva istituzionalizzazione in conseguenza (e in parallelo) col riconoscimento accademico e collezionistico-museale che ha interessato fotografia e fotografie nel corso degli ultimi decenni del Novecento, ma anche ponendola in relazione con la loro attuale crisi ontologica e materiale. Una crisi di identità che non può che riflettersi e contemporaneamente far riflettere sulla storiografia e sul suo oggetto.
Come accade per molte delle raffinate pubblicazioni di ActAr, la copertina del volume rappresenta un forte elemento di connotazione, costituendo qui l’efficace rappresentazione allegorica del contenuto. L’elaborazione realizzata da Sébastien Loubatié si basa infatti sull’icona patriottico guerresca realizzata da Joe Rosenthal a Iwo Jima, sul Monte Suribachi nel febbraio del 1945, quella stessa cui Clint Eastwood ha recentemente dedicato Flags of Our fathers (2006, come il parallelo Letters from Iwo Jima), traendolo dall’omonimo romanzo di James Bradley, (New York, Bantam Books, 2000), il solo sopravvissuto del gruppo di marines che là issò la prima bandiera USA, fotografata da Lou Lowery.
Sulla copertina del volume curato da Fontcuberta ancora i marines si affannano, ma la bandiera è scomparsa, perduto pare essere lo scopo di tanto sforzo, incerte le ragioni per procedere oltre.
All’arguzia concettuale della soluzione grafica non corrisponde purtroppo un’adeguata cura editoriale, segnata (nell’edizione inglese qui presentata) da traduzioni non sempre efficaci, dalla ripetizione integrale del testo di Carmelo Vega, da note ai testi sovente lasciate in castigliano e da una dovizia di refusi di cui avremmo fatto volentieri a meno, cui si deve aggiungere una bibliografia qualitativamente eterogenea e confusa, priva di accurato vaglio critico: basti pensare che tra i pochi autori italiani è citato anche Giovanni Chiaramonte, The Story of Photography: an illustrated history, New York, Aperture, 1983, di cui ci è nota l’edizione italiana (Milano, Jaca Book, 1983), che certo non rappresenta uno dei migliori esiti della storiografia fotografica del Bel Paese. La riconsiderazione critica della storiografia fotografica e la storiografia della storiografia hanno costituito un tema di ricerca e di riflessione di sempre maggior rilievo negli ultimi decenni (a partire da Towards the New Histories of Photography, Art Institute di Chicago, 1979, agli interventi pubblicati nel volume 21 (n.2, 1997) di “History of Photography” (Anne Mc Cauley, Allison Bertrand), sino ai più recenti contributi di Geoffrey Batchen ( Each Wild Idea, Cambridge, Mass., The MIT Press, 2002).
Così come accadeva sulle pagine di “HoP”, anche questa raccolta di saggi muove – a volte pretestuosamente – dalla critica radicale ma ormai sin troppo ovvia dei canoni stabiliti da Beaumont Newhall e Helmut Gernsheim, utilizzando un tracciato di otto punti offerti alla discussione degli studiosi, invitati ad attuare una ‘decostruzione’ dei diversi discorsi storiografici, così da riuscire a pervenire contestualmente a una ridefinizione della storiografia fotografica ed alla altrettanto difficile delimitazione dell’identità del suo oggetto.
Il contributo di Ian Jeffrey, significativamente posto in apertura, individua il nodo irrisolto di quest’area di studio nella mancanza di una ‘teoria’, di un modello in grado di produrre storia e non ‘archeologia’ o ancora, e più riduttivamente cronologia della fotografia e questa posizione è condivisa da molti degli autori qui raccolti. Penso a Carmelo Vega, che stigmatizza il ricorso diffuso a un “modello di storia della fotografia senza modelli” (75), a Bernardo Riego che definisce il canone Newhall come autarchico e autoreferenziale, mentre Boris Kossoy ne sottolinea l’impostazione episodica, positivistica, irrimediabilmente etnocentrica, segnata da un procedere più prossimo alla botanica che alle scienze sociali; un’impostazione che ha prodotto studi in cui le immagini “sono separate dalle condizioni di produzione che le determinano.” (97)Mentre tutti gli interventi concordano sull’insufficienza e ancor più sull’inadeguatezza degli esempi più noti (perché parlare di crisi sennò?), differenti risultano gli orizzonti metodologici e le prospettive storiografiche richiamate, oscillando tra le posizioni coerentemente benjaminiane di Jeffrey, immerso nelle questioni della riproducibilità e della comunicazione, il quale sostiene che “un’autentica storia del mezzo richiede una teoria dell’inconscio collettivo” (20), e le fascinazioni derridiane cui soggiace Von Amelunxen, convinto che non ci sia “storia della fotografia [che possa] portare a una storia del medium.” (219)
Centrale resta, per tutti, l’imprescindibile necessità di meglio definire l’oggetto di studio. La questione è troppo complessa per poter anche solo essere delineata in questa occasione. Basti pensare alle forti riserve espresse recentemente da André Rouillé sul valore degli apporti strutturalisti e semiotici nella definizione della fotografia, ma anche alla discussione critica in merito ad alcune categorie interpretative come quelle di autore e di opera, di collezione o di archivio che alcuni richiamano anche in queste pagine, con costanti seppur distinti riferimenti alle notissime riflessioni di Rosalind Krauss e quindi alla tradizione foucaultiana.
Si tratterà allora di definire contestualmente l’oggetto, la posizione relativa dello studioso, il suo punto di vista, e l’adozione consapevole della strumentazione intellettuale più adeguata allo scopo, riconoscendo la necessità, più che la semplice possibilità, di costruire diverse “possibili storie” (Régis Durad), poiché “La storia della fotografia è sempre al plurale” (Kunard: 157), ciò che in fondo non dovrebbe né stupire né incutere timore. Tutti i fenomeni complessi necessitano approcci significativamente distinti: penso, per esemplificare, e certo in conseguenza della mia formazione, alle differenti discipline che studiano le diverse forme dell’antropizzazione del territorio, dalla geografia all’architettura.
Aggiornando le posizioni espresse ormai circa 30 anni or sono da Carl Chiarenza, che riconosceva la necessità di una storia integrata del fare immagini, molti degli autori qui presenti concordano sulla prospettiva di una mutazione storiografica che consenta di pensare la storia della fotografia come storia delle immagini (Vega) se non addirittura come “una scienza che non possa essere compresa in alcuna delle discipline umanistiche e possa quindi, come la psicanalisi, essere considerata una metascienza.”(Amelunxen: 222). Se la storia dell’arte e quella della fotografia si devono trasformare in una più generale e problematica storia delle immagini che aspira ad essere una storia, necessariamente culturale, delle rappresentazioni, allora tutti i nostri strumenti analitici e critici andranno ripensati allontanandosi – come già aveva sostenuto Jeffrey anni fa – dai modelli interpretativi mutuati più o meno consapevolmente dalla storiografia artistica. Credo possa essere accolto l’invito, forse la sfida di André Gunthert a verificare la possibilità di pensare una “storia del fotografico”, inserita nel più ampio orizzonte di studi di cui si è detto, guidati dalla consapevolezza etica, e politica, che mai come oggi è indispensabile costruirsi e magari riuscire a fornire gli strumenti per la comprensione di un mondo che sempre più si contempla in un universo di immagini (Siza: 133).Le suggestioni, e le sollecitazioni formulate nei diversi interventi non possono che essere accolte e fruttuosamente meditate, specialmente in un contesto come quello nostrano in cui il dibattito è troppo sovente generico e superficiale, ma contemporaneamente non si può non rilevare come molte delle questioni di metodo qui poste, a volte in modo marcatamente retorico, farebbero sorridere per la loro ingenuità o schematicità qualsiasi giovane storico che si fosse formato in ambiti diversi dalla fotografia. Penso alle perorazioni di Swinnen a favore della necessità di confrontare la fotografia con altre fonti, all’auspicio di Riego che anche questo settore di studi si confronti e faccia propri i più aggiornati paradigmi della storiografia generalista. Tutto ciò costituisce l’indizio certo di una persistente arretratezza specifica del nostro settore di studi, conseguenza evidente della mancanza di qualificati e consolidati percorsi formativi, non solo in Italia, ma anche della complessità dell’oggetto cui ci si applica, dell’inestricabile rete di relazioni di cui vive e di cui innerva i più diversi contesti e ambiti applicativi. La storia di una presenza ingombrante e di un fenomeno complesso, qualcosa di più prossimo per la trama delle relazioni che implica, alla storia dello scrivere che non alla storia dell’arte. Allora, credo, ciò verso cui dovremo tendere, per cui dovremo lavorare non deve essere ‘una’ (tanto meno ‘la’) storia della fotografia, ma più storie distinte, differenti ma non indifferenti tra loro. Che poi queste non debbano né possano più essere concepite e realizzate da un solo autore è ben più che ovvio: è inevitabile.
INDICE DEL VOLUME: Revisiting The Histories of Photography, JOAN FONTCUBERTA; IAN JEFFREY; MARIE- LOUP SOUGEZ; From The “Newhall School” to the “Histories”of Photography. Experiences and Proposals for the Future, BERNARDO RIEGO; Good-Bye, Mr. Newhall , JOSÉ ANTONIO NAVARRETE; Reflections for a New History of Photography, CARMELO VEGA; The History of Photography, a History of Photographies, DANIEL GIRARDIN; Reflections on The History of Photography, BORIS KOSSOY; Writing History “Opening The Cracks” , MOUNIRA KHÉMIR; Uncomfortable Reflections , TERESA SIZA; JOAN NARANJO; The Field of Depth, HENNING STEEN WETTENDORFF; The Mechanical Art: Some Historic Debates on Art and Photography, ANDREA KUNARD; Recycling of Reality: Searching for a Historical Infrastructure from Paradox to Paroxysm, JOHANN SWINNEN; The Instant of History, VINCENT LAVOIE; The Photography of History — The History of Photography. Some Peripheral Observations, HUBERTUS VON AMELUNXEN; Photography Laboratory of a History of Modernity, ANDRÉ GUNTHERT; History of Photography: Selected Bibliography, MARIONA FERNÀNDEZ.
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Etichette: Libri
Scultura e fotografia in Brancusi
A cura di Paola Mola, L’opera al bianco, cat. della mostra (Venezia, Collezione Peggy Guggenheim, 19 febbraio – 22 maggio 2005), Milano, Skira, 2005, pp. 185.ISBN 88-7624-304-6
La mostra L’opera al bianco, curata da Paola Mola e Marielle Tabart – conservatrice dell’Atelier Brancusi, Centre Pompidou, Musée National d’Art Moderne de Paris - , tenutasi alla Collezione Peggy Guggenheim a Venezia nel 2005 (19 febbraio – 22 maggio, catalogo a cura di P. Mola), ha proposto per la prima volta al pubblico italiano un’ampia rassegna interamente dedicata al rapporto di Brancusi con la fotografia.
Da tempo sui percorsi della scultura tra fine Ottocento e prima metà del Novecento, soprattutto attraverso l’opera di Medardo Rosso, Wildt e poi Brancusi, studiati e indagati a più riprese, Paola Mola, storica dell’arte, riformula in questa occasione suggestioni e pensieri sulle fotografie di Brancusi - già in parte tracciati in alcuni suoi scritti precedenti, come in P. Mola (a cura di), Constantin Brancusi. Aforismi, (Milano, Abscondita, 2001); P. Mola, Brancusi. Indicazioni sull’opera leggera (Milano, Scalpendi, 2003); P. Mola, Relativamente a Brancusi. Con uno scritto di Vasile G. Paleolog e una fotografia (Comune di Milano, Biblioteca d’Arte – Castello Sforzesco, 2003) - proponendo un’indagine a tutto campo sull’intero fondo fotografico legato da Brancusi al Musée National d’Art Moderne de Paris.
L’opera al bianco è “il sintagma alchemico per la trasmutazione in argento”, si dice nella prefazione, nel richiamo esplicito al sapere esoterico che vuole ricondurre l'operare fotografico di Brancusi ad ambiti magici e arcaici così come arcaico e simbolico è il suo universo, sapientemente ricostruito da Mola nel collocare il rapporto con la fotografia all’interno di percorsi creativi e di pensiero, e, in definitiva, di una poetica. Classicità, ellenismo, mitologia - nel legame ancestrale che l’artista conserva con le terre d’origine - sono riferimenti essenziali, studiati da Mola per poi meglio configurare la presenza di Brancusi nel milieu parigino, dal 1904, anno dell’arrivo nella capitale francese, fino al 1957, anno della morte. La riflessione condotta da Mola non si colloca quindi esclusivamente su un piano linguistico – strutturale, ma in senso interdisciplinare indaga vicinanze e assonanze tra fotografia e scultura, ben presenti l’una all’altra senza radicali conflittualità, come è noto, sin dalle origini della fotografia – si vedano, tra i possibili riferimenti, i testi: R. M. Mason (a cura di), Pygmalion photographe. La sculpture devant la caméra. 1844 – 1936, catalogo della mostra (Cabinet des Estampes, Musée d’Art et d’Histoire, Genève, 28 giugno - 3 settembre 1985); AA.VV., Photographie/sculpture, catalogo della mostra, (Palais de Tokyo, Paris, 21 novembre 1991- 4 aprile 1992, Paris, Centre National de la Photographie, 1991) – diversamente da quanto accadde, invece, per fotografia e pittura–, anche attraverso l’analisi delle fonti e dei riferimenti culturali, in prospettiva costantemente diacronica e sincronica.
Ma come Brancusi lavorò con la fotografia? In una prima fase concepì le fotografie come documenti delle proprie opere, finalizzate soprattutto alla promozione e alla vendita. Ben presto, però, è evidente come la fotografia trasmigri per lui verso più complessi significati e tensioni sperimentali, diventando “materia” con cui confrontarsi direttamente – costruendosi una camera oscura nell’atelier, lavorando con diversi apparecchi e formati – così come direttamente Brancusi si confronta con la materia delle sue sculture e, da solo – senza delegare ad assistenti, ribadendo in senso modernista l’importanza dell’azione diretta, in forte polemica con l’Accademia – intaglia marmo e legno, fonde bronzi, modella gessi, lavora con la fotografia su più fronti: nella regia delle inquadrature e delle scene costruite nell’atelier, con le “materie”, emulsioni, agenti chimici, supporti. “… Brancusi non voleva buone fotografie, cercava la somiglianza […] non cercava un’identità impossibile della pietra o del metallo con l’immagine fotografica. La sua era la costruzione di un altro ultrasottile e commensurabile con il primo. Qualcosa che potesse accogliere il trapianto senza rigettarlo, un somigliante appunto.” dice Paola Mola (pp. 17 –18), mutuando anche parole e concetti da uno tra i più assidui frequentatori di Brancusi, Duchamp. E ancora “…un somigliante […]. Attraversato dalla stessa origine, vivo nell’incertezza dei contorni[…]. Non sono a fuoco le figure della mente. L’immagine mossa, ‘mal fatta’, stabilisce con chi guarda una più stretta relazione…” (p.18). A Man Ray infatti Brancusi dirà, dopo che l’amico aveva osservato che le sue erano “brutte” fotografie, sfuocate, graffiate (ad hoc naturalmente), stampate con macchie, sovraesposte o sottoesposte, che queste dovevano essere così e così dovevano essere visti i suoi lavori.
La mostra proponeva un excursus in “sette stanze più una” – sottesa è anche qui, un'arcaica simbologia numerica, l’ogdoade…- con le fotografie originali (circa 90) accostate, per tematiche e suggestioni, anche a gessi e bronzi politi, per procedere dall’immagine all’oggetto e viceversa.
Nelle fotografie l’atelier diviene teatro di una messa in scena (prima e terza stanza), wunderkammer (“grotto delle meraviglie”, come lui stesso chiamava curiosamente in italiano il suo studio) in cui le sculture mutano di collocazione, di illuminazione, volta per volta riprese da diversi punti di vista, avvicinate (cat. nn.12, 13), a sottolinearne i rapporti di senso, o isolate, a farne personaggi su basi scolpite - loro stesse personaggi (Il neonato II, cat. n. 10) -, indagati tra luci, riflessi e ombre (Il pesce, cat.nn.40, 41, 43; L’uccello nello spazio, cat nn. 44, 45). Ombre che mutano i rapporti percettivi, da concavo a convesso e viceversa, o che portano a duplicare l’oggetto, su un fondo o su un muro, passando dal tridimensionale al bidimensionale (Socrate, cat. n.9).
Fotografie, in rapporto alle sculture, paragonate in modo pregnante da Mola ai gessi (seconda stanza) che, per Brancusi, sono opere finite, mai modelli o bozzetti, solo talvolta calchi di opere vendute e collocati al loro posto nell’atelier. Gessi, nella rielaborazione di un tema, che sono tappe di un percorso. La Musa addormentata e il Torso d’adolescente, per esempio, sono gessi, dopo il legno e il bronzo e prima della fotografia. Come i gessi, la fotografia non è modello, ma tappa intermedia di un processo creativo, che viene spesso dopo una scultura e prima di un’altra, ed ha valore conoscitivo, è meditazione su un tema, ripreso continuamente nel tempo e talvolta, come dice Mola, diviene, dopo le sculture, compimento del percorso, opera finita (“Brancusi finisce di modellare con la luce sul vetro del negativo e poi sulla carta…”, Indicazioni.., cit. p. 20). E qui sta l’intuizione di Mola nell’individuare il parallelismo gesso/fotografia anche attraverso il diverso ruolo che il gesso assume in Brancusi rispetto alla prassi accademica, che meglio però è precisato, rispetto al presente catalogo, nel suo Indicazioni…, cit., nel paragrafo Eídola. Sul gesso e la fotografia, pp. 15 – 16: “E tuttavia la questione del gesso presenta altri differenti aspetti che non trovano spiegazione all’interno di un legame di continuità con la prassi tradizionale. Aspetti che hanno rispondenza e complemento nella fotografia. L’altra parte dell’opera di cui Brancusi non parla: come il gesso, impronta, e segno, senza distanza della materia sulla materia”. È evidente, anche se non dichiarato, il riferimento alle note teorie che rilevano nella fotografia un segno indicale (Peirce, Krauss…) nel rilevare il rapporto di assoluta contiguità fisica con la materia, l’oggetto, che sia il gesso, come calco, che la fotografia implicano; “…di cui Brancusi non parla”, si dice, rispetto al fatto che effettivamente egli non menzionò mai i suoi lavori fotografici, se non per dire significativamente un’unica volta, rispetto al discorso critico sulle sue opere, “perché scrivere? Perché non mostrare unicamente le fotografie?”(R. Payne, Constantin Brancusi, in “World Review”, 8, 1949, p. 63, cit. in Indicazioni…, cit., nota 15, p.28).
La fotografia per Brancusi assumerà sempre più carattere di ricerca sperimentale e autonoma a partire dagli anni venti. Le prime fotografie risalgono agli anni in cui egli frequenta la Scuola Nazionale di Belle Arti a Bucarest (1900 – 1901, L’ecorché), mentre dal 1905 circa (dal 1904 è a Parigi) stampa su cartoline fotografie di opere per esposizioni o per la vendita. È dal 1907, tuttavia, che inizia una fitta trama di rapporti grazie alla quale artisti, scrittori, musicisti e i maggiori fotografi del periodo diventano frequentazioni quotidiane. È in quell’anno che conosce Steichen presso lo studio di Rodin, a Meudon, dove era stato accolto come praticante. Steichen che frequenterà a lungo, che comprerà, tra i primi, alcune opere sue (Maiastra, L’uccello nello spazio) e che, nel 1914, insieme ad Alfred Stieglitz, organizzerà la sua prima mostra personale alla Photo Secession Gallery di New York (di cui “Camera Work” nel 1916 pubblica un’immagine, scattata da Stieglitz), iniziandone la fortuna in America. Steichen, nel cui giardino a Voulangis Brancusi intaglia da un albero la Colonna senza fine, alta sette metri (altro numero simbolico…) e alzata sul posto, tema di continua meditazione (la Colonna senza fine è axis mundi e “negazione del Labirinto”, come dirà in uno dei suoi celebri Aforismi), rivissuto anche fotograficamente in una serie di immagini (seconda stanza) in cui la Colonna è vista dal basso, in diagonale, controluce (cat. nn. 23-26; 30-32), denunciando ormai quell’interesse sperimentale verso il mezzo che certamente l’incontro con Man Ray, avvenuto nel 1921, aveva contribuito a suscitare. Man Ray che sarà per lui fondamentale anche perchè lo introdurrà a tutte le questioni tecniche relative alla fotografia ma anche al film e ai fotogrammi. La serie sul Prometeo (cat. nn. 52 – 58, quarta stanza) degli anni venti è emblematica della sperimentazione con la luce che, proveniente da diversi punti, scorre sull’oggetto e ne modula la superficie provocando continui spostamenti percettivi, così come nella sequenza sull’Uccello nello spazio (cat. nn. 75 -77, quinta stanza) una losanga (forma che ritorna nella Colonna..) di luce è fatta scorrere sull’oggetto posto contro un fondale di tela nera. Sono anni in cui la rete dei rapporti si infittisce e Brancusi concede che sue fotografie siano pubblicate (Ezra Pound su “The Little review” nel 1921 ne pubblica 24, Laszlo Moholy Nagy ne pubblica 7 nel suo Von Materiel zu Architektur, Bauhausbücher n. 14, 1929). Conosce inoltre Duchamp, che organizzerà per lui mostre negli Stati Uniti, Outerbridge, Brassaï, Bill Brandt, Eli Lothar, Immogen Cunningham, Kertész, Sheeler, che riprenderà, tra i pochi, il suo atelier, pubblicando le fotografie su “The Arts”, nel luglio 1923. E poi ancora Arp, Ezra Pound, Joyce, Picabia, Léger.
Molti e fecondi furono quindi i rapporti che Brancusi intrattenne con artisti e fotografi, come si sottolinea nel catalogo, anche se sarebbe stato auspicabile un maggior approfondimento, volto a ricostruire trame, intrecci, relazioni, anche attraverso apporti documentari. Così come rimane un po’ sospesa e ai margini l’ “altra” fotografia di Brancusi, quella non dedicata alle sue sculture. Nella settima stanza trovano posto istantanee sul volo di uccelli, riprese su “materie” in trasformazione (la muffa di una bacinella), fino a forme astratte, evanescenti, come nel suo Autoritratto. Un’altra produzione, fortemente sperimentale così come lo furono i film da cui spesso isolava fotogrammi, poi stampati come singole fotografie (come fece anche per il film girato da Man Ray per un suo ritratto). Brancusi inizia a lavorare con la cinepresa nel 1929, l’anno dell’esposizione di Stoccarda “Film und Foto”, cui molti suoi amici partecipano. Basti citare, tra gli altri, il film sulla Leda, del 1936, dove una sua opera, già ampiamente “vista” fotograficamente, viene ora ripresa in rotazione, secondo quel desiderio del “non ancora visto” che motiva la sua continua volontà sperimentale.
Il pregio dello studio di Mola sul rapporto di Brancusi con la fotografia è, potremmo dire in conclusione, l’apertura di uno spazio logico, mentale, in cui il discorso sulla fotografia si apre in molteplici direzioni, indagando intersezioni e rapporti, spostandosi da un contesto di riferimento a un altro, dai problemi della scultura al contesto culturale, alle sperimentazioni con la fotografia e i film, in tal modo consentendo inedite prospettive e punti di vista, per ricondurre infine ad unità gli elementi di una poetica. Una storia di fotografie che parte da un altrove, attraverso la scultura, per ricomprendersi e narrarsi.
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Etichette: Libri
Viaggio continuo
di Paolo Mussat Sartor, Torino, Edizioni Fondazione Torino, 2006, pp. 264.ISBN 88-99103-57-0Euro 40,00
Il libro/catalogo, molto diverso dall’omonima mostra (19 maggio –24 settembre 2006) – tagliata principalmente sul lavoro più recente dell’autore torinese – lavora sui .diversi nodi tematici ed espressivi che Mussat Sartor ha affrontato nel tempo, a partire dal concettuale di cui è stato, com’è noto, testimone, nonché consapevole e raffinato interprete. Artisti, amici, critici (nell’ordine: Paolini, Miraglia, Bona, Camerana, Lugli, Hardy, Bellini, Anselmo) e lo stesso Mussat Sartor hanno commentato, con tratto leggero e niente affatto accademico, ciascuna di queste sezioni, capaci di ricondurci all’indietro fino agli esordi, ossia agli intensi ritratti degli artisti dell’arte povera torinese, con i quali e accanto ai quali, Mussat si trovò a lavorare, appena ventenne, nella galleria di Gian Enzo Sperone.
Il clima di queste prime opere è quello definito da Filiberto Menna come linea analitica dell’arte, con riferimento alla tendenza tipica dell’epoca di riflettere e sperimentare sugli strumenti e i segni del medium adoperato, campo in cui, proprio in quegli anni, Ugo Mulas si distinse con le sue ‘Verifiche’ e Mussat Sartor cominciò a stabilire quello stretto legame di unità fra tensioni emotive o formali e razionalità del progetto che, mi sembra, abbia poi attraversato tutto il suo percorso artistico, anche se, ovviamente, gli aspetti razionali si sono sempre più sciolti e stemperati nell’indifferenziata liquidità dell’attuale realtà postmoderna.
Insieme ai ritratti, non solo quelli più precoci (a partire dal 1968), ma anche quelli più recenti, fino agli anni Novanta, l’autore ci propone, fra l’altro, Natura (1973), una serie di Viaggi (1976-2002), Istantanee Multiple (1973- 1992) – in effetti ancora ritratti e autoritratti – e ancora, Magicacittà (Torino 1980) e, in fine, le opere più attuali, come Rose, Gambe, pietre, Asimmetrici e Figure, eseguite a partire dalla fine degli anni Novanta, nel rutilante variare di forme, ora pesanti e spesse di significati ancor fortemente realistici, ora decisamente più leggere ed elastiche.
Il fotografo sembra convinto che “il mondo, tutto il mondo, sta davanti agli occhi”, e che la coerenza dei propri discorsi non dipenda affatto dalla ripetizione di un tema unico o da un’attenzione dedicata ossessivamente a un determinato oggetto referenziale; più che di eclettismo, come pure è stato detto, si potrebbe allora parlare di un linguaggio più contemporaneo e postmoderno, malgrado l’uso strettamente classico del mezzo nella sua accezione analogica.
Due elementi contribuiscono a rendere verosimile questa lettura. In primo luogo il titolo scelto dall’autore per indicare il senso unitario e la proiezione in avanti del proprio lavoro che, visto nella sua prospettiva passata, presente e futura, è un Viaggio continuo, un fare inteso come scavo conoscitivo perenne, che non può concludersi se non con la nostra morte fisica e che il quotidiano interesse per la realtà personale ed epocale, in direzione culturale, rende nel bene e nel male, negli incontri umani e visivi, reali e virtuali, sempre perenne con i suoi stimoli.
Il secondo elemento è costituito dall’uso spregiudicato della pittura, stesa, con variazioni cromatiche e strati diversi, sulla pellicola fotosensibile e sul grandissimo formato dell’opera, quasi a sottolineare la nuova realtà artistica e la continuità funzionale – nel campo della comunicazione e della creatività – fra tecniche passate e presenti, manuali o meccaniche, ambiguamente ibridate in esiti che spesso nascono dalle proprie stesse radici.
Pubblicato da redazione sisf alle 16:35 0 commenti
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