sabato 8 dicembre 2007

Roberto Signorini. Alle origini del fotografico. Lettura di ‘The Pencil of Nature’ ( 1844-46 ) di William Henry Fox Talbot

Bologna CLUEB 2007, in collaborazione con Petite Plaisance, PistoiaPagg 528, 24 cm, con ill. bn ISBN 978-88-491-2740-9 Euro 38



Per la prima volta in Italia questo volume offre il testo, la traduzione ed una guida alla lettura di ‘The Pencil of Nature’, il primo volume a stampa corredato da immagini fotografiche, che reca anche la prima riflessione teorica sulla fotografia, a soli cinque anni dall’annuncio della sua invenzione. L’autore William Henry Fox Talbot ( 1800-1877 ) tra i protofotografi ha un ruolo di primissimo piano: per la sua multiforme cultura scientifica, umanistica ed artistica; per l’ampiezza e continuità della sperimentazione; per la consapevolezza delle implicazioni socioculturali ed estetiche del nuovo mezzo. In particolare, egli coglie nella fotografia una ‘nuova arte’ dal significato inedito, ed ha il merito di proporla nella sua complessità ed ambiguità (‘matita della Natura’) ponendo le basi dei futuri dibattiti sul ‘fotografico’.

Il volume contiene la traduzione italiana di ‘The Pencil of Nature’ col testo inglese a fronte, e la riproduzione in bn delle tavole fotografiche, preceduta da un ampio saggio introduttivo che contestualizza l’opera nell’itinerario di ricerca dell’autore, evidenzia la sua densità culturale, sulla base di studi filologici, biografici, critici, ed analizza la riflessione di Talbot alla luce delle attuali teorie della fotografia.
Roberto Signorini (1947) è membro della SISF ed è uno studioso indipendente di teoria della fotografia. Ha pubblicato tra l’altro : Arte del Fotografico (Petite Plaisance 2001) ; Fotografia e Paesaggio (con Marisa Galbiati e Piero Pozzi, Milano, Guerini 2006); Jean-Marie Schaeffer, L’immagine precaria (con Marco Andreani, CLUEB 2006); Oltre il libro di testo (CD-rom unito al volume di Maria Luisa Tornesello Il sogno di una scuola, Petite Plaisance 2006)
Sul sito della SISF (http://www.sisf.eu/) puoi trovare una intervista realizzata da Cesare Colombo a Roberto Signorini oltre ad una galleria di immagini

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lunedì 15 ottobre 2007

La SISF compie 1 anno!

Il 26 ottobre 2007 la SISF giunge all’appuntamento della prima assemblea annuale, dopo quella costitutiva del giugno 2006.Il primo anno di attività della SISF era previsto dallo statuto come sperimentale. Si trattava infatti di collaudare la possibilità di costituire anche in Italia una associazione sul tipo di quelle che già esistevano in altri paesi europei, con lo scopo di promuovere le iniziative di studio sulla fotografia, e i contatti e gli scambi fra gli studiosi. Alla fine del primo anno di lavoro il Consiglio Direttivo uscente presenta la relazione sul suo periodo di mandato.

Tutti i soci possono leggere la relazione sul sito della SISF accedendo all'area riservata ai soci.

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domenica 30 settembre 2007

Assemblea Generale della SISF

E' indetta per il prossimo 26 ottobre, a Firenze, l'assemblea generale della SISF. L’odg è il seguente:
Registrazione degli iscritti
Relazione sulla attività svolta nel primo anno sociale, attività in corso e programmi e proposte
Relazione finanziaria e approvazione del bilancio
Modifiche di statuto, quote sociali
Elezione delle cariche sociali
Eventuali e varie
Nel periodo intercorrente fra la convocazione e l’effettuazione dell’assemblea, il consiglio direttivo provvederà ad inviare ai soci il materiale informativo relativo ai vari punti all’odg e i dettagli più precisi relativi al luogo e all’organizzazione della giornata; per contro i soci sono pregati di inviare al CD le proposte o gli eventuali consigli e suggerimenti in merito.
Scarica il documento di convocazione e la lista dei candidati (in formato *.doc)

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Parlami di lui: Le voci di Scianna, Berengo Gardin, Ferroni, Camisa, Colombo, Branzi, Manfroi, De Biasi, Permunian, Biagetti su Mario Giacomelli

a cura di Simona Guerra; Ancona, Mediateca delle Marche, 2007, 202 pp. € 20,00


La Mediateca delle Marche, già impegnata nella inventariazione preliminare del Fondo Mario Giacomelli, di proprietà del Comune di Senigallia e conservato presso il locale Museo dell’Arte Moderna e dell’Informazione, e del Fondo di proprietà degli eredi, pubblica ora questa interessante serie di interviste fatte a una ristretta scelta di personaggi, prevalentemente fotografi, che ebbero occasione di condividere o incrociare il proprio percorso personale o espressivo con quello di Giacomelli.

Il titolo del volume ben rappresenta le intenzioni del progetto, per quel suo tono che lo dichiara immediatamente vincolato alla biografia dell’autrice: “parlami di lui” si chiede nell’intimità del dialogo degli affetti mancati. O che troppo ci mancano. A questa disposizione affettuosa si deve però anche qualche ingenuità in cui Guerra è incorsa, dovuta all’accettazione acritica delle parole degli intervistati (“le loro parole sono per me verità assolute”, p.19) cui vengono a volte concessi spazi eccessivi di autocompiacimento, come la scelta non sempre coerente e motivata degli interlocutori: penso all’intervento di Manfroi, interessante in sé ma fuori tema, e al partecipato ricordo di Biagetti, cui si deve anche il ritratto di Giacomelli in copertina, che si connota piuttosto come testimonianza immaginifica di un contesto culturale caparbiamente provinciale. Dalla scelta degli interlocutori come da questi dialoghi apparentemente informali si ricava comunque una cospicua messe di informazioni sulle diverse forme del provincialismo della fotografia italiana di quegli anni, e di Giacomelli stesso. Accade così - a seconda degli incontri ma a volte con uno stesso interlocutore – che si passi con naturalezza dalle questioni di poetica all’evocazione di comuni ricordi ovvero allo svelamento di piccoli trucchi di camera oscura, in un complesso di considerazioni che riguarda l'intero mondo della fotografia 'artistica' italiana del secondo dopoguerra, con piccole cattiverie generosamente distribuite qua e là quasi senza parere e con grandi, irriducibili narcisismi. Le testimonianze che ne risultano sono anche per questo certamente utili per meglio comprendere cultura e dinamiche di una pratica ancora in bilico tra professione e passione amatoriale. Penso in particolare alle parole di Ferroni e Camisa, entrambi recentemente scomparsi, che aiutano a ricostruire un mondo di relazioni, anche minute ma necessarie per delineare quel piccolo mondo antico che viveva ancora di concorsi e gare, dove gli adepti discutevano animatamente come se “parlassero del Giro d’Italia”(Camisa: 95). Più complesso il contributo di Scianna, per la lucidità nel definire alcuni aspetti cruciali e problematici della ‘ricezione’ – anche propria – del lavoro di Giacomelli così come della sua personalità complessa e per molti versi contraddittoria, per la capacità che dimostra di cogliere quello che credo sia stato il nodo esistenziale che ha governato la sua poetica e la sua produzione: “lo scandalo che lui sentiva con violenza nei confronti della degradazione e della morte.” (Scianna: 26).
Ciò che ne è risultato, pur nei limiti indicati, è allora uno dei sinora rari esempi di pubblicazione di fonti (qui indirette) per la storia della fotografia italiana contemporanea, da tenere accanto – solo per esemplificare – al carteggio 1955-1963 di Alfredo Camisa, pubblicato da Paolo Morello (Palermo, Istituto superiore per la storia della fotografia, 2003) e all’antologia di testi curata da Cesare Colombo Lo sguardo critico: cultura e fotografia in Italia 1943-1968, ,Torino, Agora, 2003.


Indice del volume

7 Presentazione
11 Introduzione
15 Cercando Mario Giacomelli di Simona Guerra
Dialoghi
23 Ferdinando Scianna
Ciò che non si dovrebbe fotografare
53 Gianni Berengo Gardin
A Castelfranco insieme all'uomo nuovo della fotografia italiana
69 Ferruccio Ferroni
Dimenticare la tecnica per far nascere l'arte
87 Alfredo Camisa
Quando Mario era solo un garzone di bottega
101 Cesare Colombo
Mario Giacomelli: un italiano fino in fondo
123 Piergiorgio Branzi
Non tutti i miracoli nascono a Milano
135 Manfredo Manfroi
Dal punto di vista della Gondola
149 Mario de Biasi
Le fotografie non nascono per caso
161 Francesco Permunian
Espressione, non comunicazione
177 Paolo Biagetti
Perché il poeta non muore
183 Biografie delle “Voci”
195 Biografia di Mario Giacomelli


Pierangelo Cavanna

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Viaggio in un paesaggio terrestre

di Vittore Fossati, Giorgio Messori; Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 2007, 138 pp., € 18,00 ISBN 978-88-8103-457-4


Diabasis finalmente pubblica l’esito di questa avventura dello spirito avviata da Fossati e Messori ormai dieci anni or sono e proseguita per altri cinque, accompagnandosi ma soprattutto facendosi attrarre “da poeti e pittori che avevano messo il paesaggio, e l’arte di rappresentarlo, in un punto vitale della loro opera e dei loro pensieri.”

Non tanto un viaggio d’istruzione però, come i due vorrebbero modestamente far intendere, ma un percorso di raffinata verifica, amabilmente condotta per il tramite del confronto diretto coi luoghi e le loro rappresentazioni, ricorrendo ciascuno al proprio specifico taccuino ma specialmente confidando nel loro dialogo fitto e continuo, così che alla fine “molte cose scritte nascono dal fotografo, e alcune inquadrature sono state magari suggerite dallo scrittore.” Ciò che ne è risultato non è una ricognizione fotografica accompagnata da un testo, come accadeva ad esempio per Gianni Celati con Luigi Ghirri, certo tra i riferimenti affettivi e generazionali dei due autori, quanto semmai uno sviluppo del modello messo a punto da Strand e Zavattini (Un paese, Torino, Einaudi, 1955; nuova ed. Firenze - New York, Alinari - Aperture, 1997) dove il legame allora già stretto tra parola e immagine si fa qui imprescindibile e fondante. Siamo ora in presenza di due coautori distinti non di due autori diversi, e per questo risulta difficile concordare con Marco Belpoliti (”Alias”, 9-6-2007: 18) quando afferma che “La voce di Fossati nel libro non c’è – poiché è stato scritto da Messori – ma ci sono i suoi sguardi e ciò che di questi sguardi ci dice lo scrittore”, come se la sola mediazione possibile fosse la parola. Sin troppo facile sarebbe ribaltare la direzione di questa lettura per rivendicare una prevalenza del fotografico; non si darebbe con ciò ragione dell’esito di questo progetto, per il quale è più utile ricorrere alla definizione di “iconotesto” così come è stata messa a punto in area francese (Alain Montandon,a cura di, Iconotextes, Actes du colloque international tenu à l' Université Blaise Pascal, Clermont-Ferrand, 17-19 mars 1988, Paris, CRCD Clermont-Ferrand, Ophrys, 1990; nuova ed. 2002) e utilizzata recentemente ad esempio da Michele Vangi (Letteratura e fotografia, Pasian di Prato, Campanotto Editore, 2005) a proposito – tra gli altri – di W.G. Sebald, con cui Messori condivideva una affettuosa ammirazione per Robert Walser, per quel suo sguardo stupito sull’incanto del mondo, di ogni porzione di mondo, che è anche una delle qualità migliori dei nostri due autori, forse la consonanza segreta che ha fatto crescere negli anni un’amicizia profonda, nata sotto il segno di Ghirri.

Questo “libro illustrato, qualcosa che si può seguire leggendo e guardando” è lo spazio di riflessione offerto da Fossati e Messori, che hanno concepito l’opera sulla permeabilità dei due mezzi espressivi come sulla ricchezza della loro corrispondenza inesausta, senza rifiutare il modello domestico degli album ricordo. Non è solo l’insistenza affettuosa dello sguardo però a dar corpo a queste osservazioni incrociate, a far affiorare una malinconia che è stupita e precisa a un tempo, traducendosi in meticolose osservazioni, attraversata dalla memoria di parole e figure depositate nel tempo da una scelta compagnia di viandanti, di cui si dà conto in un atlante degli affetti pudicamente camuffato da Nota bibliografica, a chiusura del volume.
Con loro si muovono nella ineludibile corporalità del “paesaggio terrestre”; non per verificare un dato di realtà però, quanto piuttosto per saggiare la possibilità e la tenuta delle sue rappresentazioni, nella convinzione – condivisibile, ovvio – che la visione non può che essere “sempre il ricrearsi di un visibile”. Per questo credo si sono mossi alla ricerca di un tempo inattuale (ma non “perduto”) con un agire da archeologi dello sguardo intenti a rilevare in situ le ragioni delle inquadrature di Courbet come dei motivi di Cézanne, a indagare la profondità e le stratificazioni di un’idea, riconoscendo infine che la sola cosa visibile è un simulacro. Inevitabile e necessario però, perché “abbiamo bisogno di nomi, di luoghi immaginati e immagini che altri ci hanno regalato, nomi e immagini che possono condurci altrove (…) solo per sperare di riconoscere nel mondo un luogo a cui volere ancora appartenere.”

Indice del volume

09 Premessa
13 Paesaggio terrestre attorno a Villa Minozzo
29 Finestre in Engadina
39 Non è ancora buio
55 La via di Tetrarca
73 Le cave, la città
89 I motivi di Cézanne
101 Il cielo a Delft
111 Eldena
125 A Capri
135 Indice delle illustrazioni
137 Nota bibliografica

Pierangelo Cavanna

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sabato 29 settembre 2007

Storia e fotografia: Rappresentazioni della guerra e della violenza nel XX secolo

Nell'ambito del FESTIVAL DELLA STORIA
DIS-UGUAGLIANZE
Arezzo, 27-28-29 settembre 2007

29 SETTEMBRE 2007
ore 10,00

Storia e fotografia: Rappresentazioni della guerra e della violenza nel XX secolo
a cura della Società italiana per lo studio della fotografia

Luigi Tomassini (Università di Bologna): Intoduzione
Giovanni Fiorentino (Università della Tuscia): L’occhio che uccide. Comunicazione visiva e rappresentazioni della violenza nel XX secolo
Adolfo Mignemi (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia): La rappresentazione fotografica della violenza bellica fra Seconda Guerra Mondiale e Resistenza


La fotografia sta entrando sempre più fra gli strumenti indispensabili nella “cassetta degli attrezzi” dello storico. Accanto al suo significato come fonte per la storia, occorre considerare anche il fatto che la fotografia, con i suoi derivati, è un potente mezzo di comunicazione visiva che come tale agisce nella storia, e può influire sul corso stesso degli eventi.La fotografia non è quindi solo una fedele e oggettiva riproduzione degli eventi, ma è in larga misura culturalmente e storicamente determinata. Per capire questo aspetto si è scelto di trattare un tema, quello della violenza in guerra, che si presta a una analisi approfondita non solo del tema delle diseguaglianze, ma anche dei condizionamenti culturali che caratterizzano la produzione e la diffusione dell’immagine fotografica. La violenza bellica infatti è l’espressione forse più forte della dis-uguaglianza, la conseguenza estrema della tensione che si crea fra fra entità che si definiscono come diverse e nemiche e tendono all’annullamento dell’avversario. D’altra parte la fotografia di guerra - e in particolare della violenza estrema in guerra - è uno dei casi in cui la “visibilità” delle immagini trova un limite evidente di ordine culturale. Secondo le epoche e i contesti, varia molto la rappresentazione accettata della violenza, e certe fotografie estremamente crude e violente sono sottoposte a censura o autocensura; nello stesso tempo in cui si assiste ad una “estetizzazione” delle rappresentazioni della guerra. Il fatto che nel mondo attuale le immagini della violenza siano sempre più crude e pervasive, pone quindi allo storico una duplice domanda, relativa sia al fenomeno in sé, ovvero alla crescita della violenza diffusa e praticata, sia alle sue rappresentazioni, ovvero alla evoluzione delle concezioni relative alla “moralità” comune e diffusa della visione della violenza.

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Photography. Crisis of History

A cura di Joan Fontcuberta, Barcelona, ACTAR, [2003]ISBN 84-95273-50-0, pp. 253, € 18,00

Il volume raccoglie i contributi di diversi studiosi, alcuni dei quali presentati al simposio dedicato a The History of Photography Revisited, tenutosi a Barcellona durante la Primavera Fotogràfica, edizione 2000, e offre una serie di interessanti elementi di riflessione intorno alle ragioni e sulle prospettive della ormai lunga stagione di crisi della storiografia fotografica, collocandola – come fa Fontcuberta nell’intervento in apertura – nel più ampio contesto che ne ha segnato la progressiva istituzionalizzazione in conseguenza (e in parallelo) col riconoscimento accademico e collezionistico-museale che ha interessato fotografia e fotografie nel corso degli ultimi decenni del Novecento, ma anche ponendola in relazione con la loro attuale crisi ontologica e materiale. Una crisi di identità che non può che riflettersi e contemporaneamente far riflettere sulla storiografia e sul suo oggetto.

Come accade per molte delle raffinate pubblicazioni di ActAr, la copertina del volume rappresenta un forte elemento di connotazione, costituendo qui l’efficace rappresentazione allegorica del contenuto. L’elaborazione realizzata da Sébastien Loubatié si basa infatti sull’icona patriottico guerresca realizzata da Joe Rosenthal a Iwo Jima, sul Monte Suribachi nel febbraio del 1945, quella stessa cui Clint Eastwood ha recentemente dedicato Flags of Our fathers (2006, come il parallelo Letters from Iwo Jima), traendolo dall’omonimo romanzo di James Bradley, (New York, Bantam Books, 2000), il solo sopravvissuto del gruppo di marines che là issò la prima bandiera USA, fotografata da Lou Lowery.
Sulla copertina del volume curato da Fontcuberta ancora i marines si affannano, ma la bandiera è scomparsa, perduto pare essere lo scopo di tanto sforzo, incerte le ragioni per procedere oltre.
All’arguzia concettuale della soluzione grafica non corrisponde purtroppo un’adeguata cura editoriale, segnata (nell’edizione inglese qui presentata) da traduzioni non sempre efficaci, dalla ripetizione integrale del testo di Carmelo Vega, da note ai testi sovente lasciate in castigliano e da una dovizia di refusi di cui avremmo fatto volentieri a meno, cui si deve aggiungere una bibliografia qualitativamente eterogenea e confusa, priva di accurato vaglio critico: basti pensare che tra i pochi autori italiani è citato anche Giovanni Chiaramonte, The Story of Photography: an illustrated history, New York, Aperture, 1983, di cui ci è nota l’edizione italiana (Milano, Jaca Book, 1983), che certo non rappresenta uno dei migliori esiti della storiografia fotografica del Bel Paese. La riconsiderazione critica della storiografia fotografica e la storiografia della storiografia hanno costituito un tema di ricerca e di riflessione di sempre maggior rilievo negli ultimi decenni (a partire da Towards the New Histories of Photography, Art Institute di Chicago, 1979, agli interventi pubblicati nel volume 21 (n.2, 1997) di “History of Photography” (Anne Mc Cauley, Allison Bertrand), sino ai più recenti contributi di Geoffrey Batchen ( Each Wild Idea, Cambridge, Mass., The MIT Press, 2002).
Così come accadeva sulle pagine di “HoP”, anche questa raccolta di saggi muove – a volte pretestuosamente – dalla critica radicale ma ormai sin troppo ovvia dei canoni stabiliti da Beaumont Newhall e Helmut Gernsheim, utilizzando un tracciato di otto punti offerti alla discussione degli studiosi, invitati ad attuare una ‘decostruzione’ dei diversi discorsi storiografici, così da riuscire a pervenire contestualmente a una ridefinizione della storiografia fotografica ed alla altrettanto difficile delimitazione dell’identità del suo oggetto.
Il contributo di Ian Jeffrey, significativamente posto in apertura, individua il nodo irrisolto di quest’area di studio nella mancanza di una ‘teoria’, di un modello in grado di produrre storia e non ‘archeologia’ o ancora, e più riduttivamente cronologia della fotografia e questa posizione è condivisa da molti degli autori qui raccolti. Penso a Carmelo Vega, che stigmatizza il ricorso diffuso a un “modello di storia della fotografia senza modelli” (75), a Bernardo Riego che definisce il canone Newhall come autarchico e autoreferenziale, mentre Boris Kossoy ne sottolinea l’impostazione episodica, positivistica, irrimediabilmente etnocentrica, segnata da un procedere più prossimo alla botanica che alle scienze sociali; un’impostazione che ha prodotto studi in cui le immagini “sono separate dalle condizioni di produzione che le determinano.” (97)Mentre tutti gli interventi concordano sull’insufficienza e ancor più sull’inadeguatezza degli esempi più noti (perché parlare di crisi sennò?), differenti risultano gli orizzonti metodologici e le prospettive storiografiche richiamate, oscillando tra le posizioni coerentemente benjaminiane di Jeffrey, immerso nelle questioni della riproducibilità e della comunicazione, il quale sostiene che “un’autentica storia del mezzo richiede una teoria dell’inconscio collettivo” (20), e le fascinazioni derridiane cui soggiace Von Amelunxen, convinto che non ci sia “storia della fotografia [che possa] portare a una storia del medium.” (219)
Centrale resta, per tutti, l’imprescindibile necessità di meglio definire l’oggetto di studio. La questione è troppo complessa per poter anche solo essere delineata in questa occasione. Basti pensare alle forti riserve espresse recentemente da André Rouillé sul valore degli apporti strutturalisti e semiotici nella definizione della fotografia, ma anche alla discussione critica in merito ad alcune categorie interpretative come quelle di autore e di opera, di collezione o di archivio che alcuni richiamano anche in queste pagine, con costanti seppur distinti riferimenti alle notissime riflessioni di Rosalind Krauss e quindi alla tradizione foucaultiana.
Si tratterà allora di definire contestualmente l’oggetto, la posizione relativa dello studioso, il suo punto di vista, e l’adozione consapevole della strumentazione intellettuale più adeguata allo scopo, riconoscendo la necessità, più che la semplice possibilità, di costruire diverse “possibili storie” (Régis Durad), poiché “La storia della fotografia è sempre al plurale” (Kunard: 157), ciò che in fondo non dovrebbe né stupire né incutere timore. Tutti i fenomeni complessi necessitano approcci significativamente distinti: penso, per esemplificare, e certo in conseguenza della mia formazione, alle differenti discipline che studiano le diverse forme dell’antropizzazione del territorio, dalla geografia all’architettura.
Aggiornando le posizioni espresse ormai circa 30 anni or sono da Carl Chiarenza, che riconosceva la necessità di una storia integrata del fare immagini, molti degli autori qui presenti concordano sulla prospettiva di una mutazione storiografica che consenta di pensare la storia della fotografia come storia delle immagini (Vega) se non addirittura come “una scienza che non possa essere compresa in alcuna delle discipline umanistiche e possa quindi, come la psicanalisi, essere considerata una metascienza.”(Amelunxen: 222). Se la storia dell’arte e quella della fotografia si devono trasformare in una più generale e problematica storia delle immagini che aspira ad essere una storia, necessariamente culturale, delle rappresentazioni, allora tutti i nostri strumenti analitici e critici andranno ripensati allontanandosi – come già aveva sostenuto Jeffrey anni fa – dai modelli interpretativi mutuati più o meno consapevolmente dalla storiografia artistica. Credo possa essere accolto l’invito, forse la sfida di André Gunthert a verificare la possibilità di pensare una “storia del fotografico”, inserita nel più ampio orizzonte di studi di cui si è detto, guidati dalla consapevolezza etica, e politica, che mai come oggi è indispensabile costruirsi e magari riuscire a fornire gli strumenti per la comprensione di un mondo che sempre più si contempla in un universo di immagini (Siza: 133).Le suggestioni, e le sollecitazioni formulate nei diversi interventi non possono che essere accolte e fruttuosamente meditate, specialmente in un contesto come quello nostrano in cui il dibattito è troppo sovente generico e superficiale, ma contemporaneamente non si può non rilevare come molte delle questioni di metodo qui poste, a volte in modo marcatamente retorico, farebbero sorridere per la loro ingenuità o schematicità qualsiasi giovane storico che si fosse formato in ambiti diversi dalla fotografia. Penso alle perorazioni di Swinnen a favore della necessità di confrontare la fotografia con altre fonti, all’auspicio di Riego che anche questo settore di studi si confronti e faccia propri i più aggiornati paradigmi della storiografia generalista. Tutto ciò costituisce l’indizio certo di una persistente arretratezza specifica del nostro settore di studi, conseguenza evidente della mancanza di qualificati e consolidati percorsi formativi, non solo in Italia, ma anche della complessità dell’oggetto cui ci si applica, dell’inestricabile rete di relazioni di cui vive e di cui innerva i più diversi contesti e ambiti applicativi. La storia di una presenza ingombrante e di un fenomeno complesso, qualcosa di più prossimo per la trama delle relazioni che implica, alla storia dello scrivere che non alla storia dell’arte. Allora, credo, ciò verso cui dovremo tendere, per cui dovremo lavorare non deve essere ‘una’ (tanto meno ‘la’) storia della fotografia, ma più storie distinte, differenti ma non indifferenti tra loro. Che poi queste non debbano né possano più essere concepite e realizzate da un solo autore è ben più che ovvio: è inevitabile.

INDICE DEL VOLUME: Revisiting The Histories of Photography, JOAN FONTCUBERTA; IAN JEFFREY; MARIE- LOUP SOUGEZ; From The “Newhall School” to the “Histories”of Photography. Experiences and Proposals for the Future, BERNARDO RIEGO; Good-Bye, Mr. Newhall , JOSÉ ANTONIO NAVARRETE; Reflections for a New History of Photography, CARMELO VEGA; The History of Photography, a History of Photographies, DANIEL GIRARDIN; Reflections on The History of Photography, BORIS KOSSOY; Writing History “Opening The Cracks” , MOUNIRA KHÉMIR; Uncomfortable Reflections , TERESA SIZA; JOAN NARANJO; The Field of Depth, HENNING STEEN WETTENDORFF; The Mechanical Art: Some Historic Debates on Art and Photography, ANDREA KUNARD; Recycling of Reality: Searching for a Historical Infrastructure from Paradox to Paroxysm, JOHANN SWINNEN; The Instant of History, VINCENT LAVOIE; The Photography of History — The History of Photography. Some Peripheral Observations, HUBERTUS VON AMELUNXEN; Photography Laboratory of a History of Modernity, ANDRÉ GUNTHERT; History of Photography: Selected Bibliography, MARIONA FERNÀNDEZ.


Pierangelo Cavanna

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Scultura e fotografia in Brancusi

A cura di Paola Mola, L’opera al bianco, cat. della mostra (Venezia, Collezione Peggy Guggenheim, 19 febbraio – 22 maggio 2005), Milano, Skira, 2005, pp. 185.ISBN 88-7624-304-6

La mostra L’opera al bianco, curata da Paola Mola e Marielle Tabart – conservatrice dell’Atelier Brancusi, Centre Pompidou, Musée National d’Art Moderne de Paris - , tenutasi alla Collezione Peggy Guggenheim a Venezia nel 2005 (19 febbraio – 22 maggio, catalogo a cura di P. Mola), ha proposto per la prima volta al pubblico italiano un’ampia rassegna interamente dedicata al rapporto di Brancusi con la fotografia.

Da tempo sui percorsi della scultura tra fine Ottocento e prima metà del Novecento, soprattutto attraverso l’opera di Medardo Rosso, Wildt e poi Brancusi, studiati e indagati a più riprese, Paola Mola, storica dell’arte, riformula in questa occasione suggestioni e pensieri sulle fotografie di Brancusi - già in parte tracciati in alcuni suoi scritti precedenti, come in P. Mola (a cura di), Constantin Brancusi. Aforismi, (Milano, Abscondita, 2001); P. Mola, Brancusi. Indicazioni sull’opera leggera (Milano, Scalpendi, 2003); P. Mola, Relativamente a Brancusi. Con uno scritto di Vasile G. Paleolog e una fotografia (Comune di Milano, Biblioteca d’Arte – Castello Sforzesco, 2003) - proponendo un’indagine a tutto campo sull’intero fondo fotografico legato da Brancusi al Musée National d’Art Moderne de Paris.
L’opera al bianco è “il sintagma alchemico per la trasmutazione in argento”, si dice nella prefazione, nel richiamo esplicito al sapere esoterico che vuole ricondurre l'operare fotografico di Brancusi ad ambiti magici e arcaici così come arcaico e simbolico è il suo universo, sapientemente ricostruito da Mola nel collocare il rapporto con la fotografia all’interno di percorsi creativi e di pensiero, e, in definitiva, di una poetica. Classicità, ellenismo, mitologia - nel legame ancestrale che l’artista conserva con le terre d’origine - sono riferimenti essenziali, studiati da Mola per poi meglio configurare la presenza di Brancusi nel milieu parigino, dal 1904, anno dell’arrivo nella capitale francese, fino al 1957, anno della morte. La riflessione condotta da Mola non si colloca quindi esclusivamente su un piano linguistico – strutturale, ma in senso interdisciplinare indaga vicinanze e assonanze tra fotografia e scultura, ben presenti l’una all’altra senza radicali conflittualità, come è noto, sin dalle origini della fotografia – si vedano, tra i possibili riferimenti, i testi: R. M. Mason (a cura di), Pygmalion photographe. La sculpture devant la caméra. 1844 – 1936, catalogo della mostra (Cabinet des Estampes, Musée d’Art et d’Histoire, Genève, 28 giugno - 3 settembre 1985); AA.VV., Photographie/sculpture, catalogo della mostra, (Palais de Tokyo, Paris, 21 novembre 1991- 4 aprile 1992, Paris, Centre National de la Photographie, 1991) – diversamente da quanto accadde, invece, per fotografia e pittura–, anche attraverso l’analisi delle fonti e dei riferimenti culturali, in prospettiva costantemente diacronica e sincronica.
Ma come Brancusi lavorò con la fotografia? In una prima fase concepì le fotografie come documenti delle proprie opere, finalizzate soprattutto alla promozione e alla vendita. Ben presto, però, è evidente come la fotografia trasmigri per lui verso più complessi significati e tensioni sperimentali, diventando “materia” con cui confrontarsi direttamente – costruendosi una camera oscura nell’atelier, lavorando con diversi apparecchi e formati – così come direttamente Brancusi si confronta con la materia delle sue sculture e, da solo – senza delegare ad assistenti, ribadendo in senso modernista l’importanza dell’azione diretta, in forte polemica con l’Accademia – intaglia marmo e legno, fonde bronzi, modella gessi, lavora con la fotografia su più fronti: nella regia delle inquadrature e delle scene costruite nell’atelier, con le “materie”, emulsioni, agenti chimici, supporti. “… Brancusi non voleva buone fotografie, cercava la somiglianza […] non cercava un’identità impossibile della pietra o del metallo con l’immagine fotografica. La sua era la costruzione di un altro ultrasottile e commensurabile con il primo. Qualcosa che potesse accogliere il trapianto senza rigettarlo, un somigliante appunto.” dice Paola Mola (pp. 17 –18), mutuando anche parole e concetti da uno tra i più assidui frequentatori di Brancusi, Duchamp. E ancora “…un somigliante […]. Attraversato dalla stessa origine, vivo nell’incertezza dei contorni[…]. Non sono a fuoco le figure della mente. L’immagine mossa, ‘mal fatta’, stabilisce con chi guarda una più stretta relazione…” (p.18). A Man Ray infatti Brancusi dirà, dopo che l’amico aveva osservato che le sue erano “brutte” fotografie, sfuocate, graffiate (ad hoc naturalmente), stampate con macchie, sovraesposte o sottoesposte, che queste dovevano essere così e così dovevano essere visti i suoi lavori.
La mostra proponeva un excursus in “sette stanze più una” – sottesa è anche qui, un'arcaica simbologia numerica, l’ogdoade…- con le fotografie originali (circa 90) accostate, per tematiche e suggestioni, anche a gessi e bronzi politi, per procedere dall’immagine all’oggetto e viceversa.
Nelle fotografie l’atelier diviene teatro di una messa in scena (prima e terza stanza), wunderkammer (“grotto delle meraviglie”, come lui stesso chiamava curiosamente in italiano il suo studio) in cui le sculture mutano di collocazione, di illuminazione, volta per volta riprese da diversi punti di vista, avvicinate (cat. nn.12, 13), a sottolinearne i rapporti di senso, o isolate, a farne personaggi su basi scolpite - loro stesse personaggi (Il neonato II, cat. n. 10) -, indagati tra luci, riflessi e ombre (Il pesce, cat.nn.40, 41, 43; L’uccello nello spazio, cat nn. 44, 45). Ombre che mutano i rapporti percettivi, da concavo a convesso e viceversa, o che portano a duplicare l’oggetto, su un fondo o su un muro, passando dal tridimensionale al bidimensionale (Socrate, cat. n.9).
Fotografie, in rapporto alle sculture, paragonate in modo pregnante da Mola ai gessi (seconda stanza) che, per Brancusi, sono opere finite, mai modelli o bozzetti, solo talvolta calchi di opere vendute e collocati al loro posto nell’atelier. Gessi, nella rielaborazione di un tema, che sono tappe di un percorso. La Musa addormentata e il Torso d’adolescente, per esempio, sono gessi, dopo il legno e il bronzo e prima della fotografia. Come i gessi, la fotografia non è modello, ma tappa intermedia di un processo creativo, che viene spesso dopo una scultura e prima di un’altra, ed ha valore conoscitivo, è meditazione su un tema, ripreso continuamente nel tempo e talvolta, come dice Mola, diviene, dopo le sculture, compimento del percorso, opera finita (“Brancusi finisce di modellare con la luce sul vetro del negativo e poi sulla carta…”, Indicazioni.., cit. p. 20). E qui sta l’intuizione di Mola nell’individuare il parallelismo gesso/fotografia anche attraverso il diverso ruolo che il gesso assume in Brancusi rispetto alla prassi accademica, che meglio però è precisato, rispetto al presente catalogo, nel suo Indicazioni…, cit., nel paragrafo Eídola. Sul gesso e la fotografia, pp. 15 – 16: “E tuttavia la questione del gesso presenta altri differenti aspetti che non trovano spiegazione all’interno di un legame di continuità con la prassi tradizionale. Aspetti che hanno rispondenza e complemento nella fotografia. L’altra parte dell’opera di cui Brancusi non parla: come il gesso, impronta, e segno, senza distanza della materia sulla materia”. È evidente, anche se non dichiarato, il riferimento alle note teorie che rilevano nella fotografia un segno indicale (Peirce, Krauss…) nel rilevare il rapporto di assoluta contiguità fisica con la materia, l’oggetto, che sia il gesso, come calco, che la fotografia implicano; “…di cui Brancusi non parla”, si dice, rispetto al fatto che effettivamente egli non menzionò mai i suoi lavori fotografici, se non per dire significativamente un’unica volta, rispetto al discorso critico sulle sue opere, “perché scrivere? Perché non mostrare unicamente le fotografie?”(R. Payne, Constantin Brancusi, in “World Review”, 8, 1949, p. 63, cit. in Indicazioni…, cit., nota 15, p.28).
La fotografia per Brancusi assumerà sempre più carattere di ricerca sperimentale e autonoma a partire dagli anni venti. Le prime fotografie risalgono agli anni in cui egli frequenta la Scuola Nazionale di Belle Arti a Bucarest (1900 – 1901, L’ecorché), mentre dal 1905 circa (dal 1904 è a Parigi) stampa su cartoline fotografie di opere per esposizioni o per la vendita. È dal 1907, tuttavia, che inizia una fitta trama di rapporti grazie alla quale artisti, scrittori, musicisti e i maggiori fotografi del periodo diventano frequentazioni quotidiane. È in quell’anno che conosce Steichen presso lo studio di Rodin, a Meudon, dove era stato accolto come praticante. Steichen che frequenterà a lungo, che comprerà, tra i primi, alcune opere sue (Maiastra, L’uccello nello spazio) e che, nel 1914, insieme ad Alfred Stieglitz, organizzerà la sua prima mostra personale alla Photo Secession Gallery di New York (di cui “Camera Work” nel 1916 pubblica un’immagine, scattata da Stieglitz), iniziandone la fortuna in America. Steichen, nel cui giardino a Voulangis Brancusi intaglia da un albero la Colonna senza fine, alta sette metri (altro numero simbolico…) e alzata sul posto, tema di continua meditazione (la Colonna senza fine è axis mundi e “negazione del Labirinto”, come dirà in uno dei suoi celebri Aforismi), rivissuto anche fotograficamente in una serie di immagini (seconda stanza) in cui la Colonna è vista dal basso, in diagonale, controluce (cat. nn. 23-26; 30-32), denunciando ormai quell’interesse sperimentale verso il mezzo che certamente l’incontro con Man Ray, avvenuto nel 1921, aveva contribuito a suscitare. Man Ray che sarà per lui fondamentale anche perchè lo introdurrà a tutte le questioni tecniche relative alla fotografia ma anche al film e ai fotogrammi. La serie sul Prometeo (cat. nn. 52 – 58, quarta stanza) degli anni venti è emblematica della sperimentazione con la luce che, proveniente da diversi punti, scorre sull’oggetto e ne modula la superficie provocando continui spostamenti percettivi, così come nella sequenza sull’Uccello nello spazio (cat. nn. 75 -77, quinta stanza) una losanga (forma che ritorna nella Colonna..) di luce è fatta scorrere sull’oggetto posto contro un fondale di tela nera. Sono anni in cui la rete dei rapporti si infittisce e Brancusi concede che sue fotografie siano pubblicate (Ezra Pound su “The Little review” nel 1921 ne pubblica 24, Laszlo Moholy Nagy ne pubblica 7 nel suo Von Materiel zu Architektur, Bauhausbücher n. 14, 1929). Conosce inoltre Duchamp, che organizzerà per lui mostre negli Stati Uniti, Outerbridge, Brassaï, Bill Brandt, Eli Lothar, Immogen Cunningham, Kertész, Sheeler, che riprenderà, tra i pochi, il suo atelier, pubblicando le fotografie su “The Arts”, nel luglio 1923. E poi ancora Arp, Ezra Pound, Joyce, Picabia, Léger.
Molti e fecondi furono quindi i rapporti che Brancusi intrattenne con artisti e fotografi, come si sottolinea nel catalogo, anche se sarebbe stato auspicabile un maggior approfondimento, volto a ricostruire trame, intrecci, relazioni, anche attraverso apporti documentari. Così come rimane un po’ sospesa e ai margini l’ “altra” fotografia di Brancusi, quella non dedicata alle sue sculture. Nella settima stanza trovano posto istantanee sul volo di uccelli, riprese su “materie” in trasformazione (la muffa di una bacinella), fino a forme astratte, evanescenti, come nel suo Autoritratto. Un’altra produzione, fortemente sperimentale così come lo furono i film da cui spesso isolava fotogrammi, poi stampati come singole fotografie (come fece anche per il film girato da Man Ray per un suo ritratto). Brancusi inizia a lavorare con la cinepresa nel 1929, l’anno dell’esposizione di Stoccarda “Film und Foto”, cui molti suoi amici partecipano. Basti citare, tra gli altri, il film sulla Leda, del 1936, dove una sua opera, già ampiamente “vista” fotograficamente, viene ora ripresa in rotazione, secondo quel desiderio del “non ancora visto” che motiva la sua continua volontà sperimentale.
Il pregio dello studio di Mola sul rapporto di Brancusi con la fotografia è, potremmo dire in conclusione, l’apertura di uno spazio logico, mentale, in cui il discorso sulla fotografia si apre in molteplici direzioni, indagando intersezioni e rapporti, spostandosi da un contesto di riferimento a un altro, dai problemi della scultura al contesto culturale, alle sperimentazioni con la fotografia e i film, in tal modo consentendo inedite prospettive e punti di vista, per ricondurre infine ad unità gli elementi di una poetica. Una storia di fotografie che parte da un altrove, attraverso la scultura, per ricomprendersi e narrarsi.

Silvia Paoli

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Viaggio continuo

di Paolo Mussat Sartor, Torino, Edizioni Fondazione Torino, 2006, pp. 264.ISBN 88-99103-57-0Euro 40,00

Il libro/catalogo, molto diverso dall’omonima mostra (19 maggio –24 settembre 2006) – tagliata principalmente sul lavoro più recente dell’autore torinese – lavora sui .diversi nodi tematici ed espressivi che Mussat Sartor ha affrontato nel tempo, a partire dal concettuale di cui è stato, com’è noto, testimone, nonché consapevole e raffinato interprete. Artisti, amici, critici (nell’ordine: Paolini, Miraglia, Bona, Camerana, Lugli, Hardy, Bellini, Anselmo) e lo stesso Mussat Sartor hanno commentato, con tratto leggero e niente affatto accademico, ciascuna di queste sezioni, capaci di ricondurci all’indietro fino agli esordi, ossia agli intensi ritratti degli artisti dell’arte povera torinese, con i quali e accanto ai quali, Mussat si trovò a lavorare, appena ventenne, nella galleria di Gian Enzo Sperone.

Il clima di queste prime opere è quello definito da Filiberto Menna come linea analitica dell’arte, con riferimento alla tendenza tipica dell’epoca di riflettere e sperimentare sugli strumenti e i segni del medium adoperato, campo in cui, proprio in quegli anni, Ugo Mulas si distinse con le sue ‘Verifiche’ e Mussat Sartor cominciò a stabilire quello stretto legame di unità fra tensioni emotive o formali e razionalità del progetto che, mi sembra, abbia poi attraversato tutto il suo percorso artistico, anche se, ovviamente, gli aspetti razionali si sono sempre più sciolti e stemperati nell’indifferenziata liquidità dell’attuale realtà postmoderna.
Insieme ai ritratti, non solo quelli più precoci (a partire dal 1968), ma anche quelli più recenti, fino agli anni Novanta, l’autore ci propone, fra l’altro, Natura (1973), una serie di Viaggi (1976-2002), Istantanee Multiple (1973- 1992) – in effetti ancora ritratti e autoritratti – e ancora, Magicacittà (Torino 1980) e, in fine, le opere più attuali, come Rose, Gambe, pietre, Asimmetrici e Figure, eseguite a partire dalla fine degli anni Novanta, nel rutilante variare di forme, ora pesanti e spesse di significati ancor fortemente realistici, ora decisamente più leggere ed elastiche.
Il fotografo sembra convinto che “il mondo, tutto il mondo, sta davanti agli occhi”, e che la coerenza dei propri discorsi non dipenda affatto dalla ripetizione di un tema unico o da un’attenzione dedicata ossessivamente a un determinato oggetto referenziale; più che di eclettismo, come pure è stato detto, si potrebbe allora parlare di un linguaggio più contemporaneo e postmoderno, malgrado l’uso strettamente classico del mezzo nella sua accezione analogica.
Due elementi contribuiscono a rendere verosimile questa lettura. In primo luogo il titolo scelto dall’autore per indicare il senso unitario e la proiezione in avanti del proprio lavoro che, visto nella sua prospettiva passata, presente e futura, è un Viaggio continuo, un fare inteso come scavo conoscitivo perenne, che non può concludersi se non con la nostra morte fisica e che il quotidiano interesse per la realtà personale ed epocale, in direzione culturale, rende nel bene e nel male, negli incontri umani e visivi, reali e virtuali, sempre perenne con i suoi stimoli.
Il secondo elemento è costituito dall’uso spregiudicato della pittura, stesa, con variazioni cromatiche e strati diversi, sulla pellicola fotosensibile e sul grandissimo formato dell’opera, quasi a sottolineare la nuova realtà artistica e la continuità funzionale – nel campo della comunicazione e della creatività – fra tecniche passate e presenti, manuali o meccaniche, ambiguamente ibridate in esiti che spesso nascono dalle proprie stesse radici.

Marina Miraglia

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Avondo e la fotografia

A cura di P. Cavanna, Edizioni Fondazione Torino, 2006, pp. 269.ISBN 88-88103-44-9Euro 35,00

Tessendo una fitta rete di legami fra fotografia, pittura e storia delle istituzioni civiche torinesi a cavallo fra Otto e Novecento, Cavanna offre un notevole contributo alla definizione del ruolo preminente esercitato da Avondo nel coevo ambito culturale e, rivolgendo un’attenzione particolare ad indagare anche la sua figura di pittore e disegnatore, attribuisce nuove coordinate di lettura e di interpretazione a quella svolta epocale che intorno alla metà circa dell’Ottocento, portò, con l’aiuto determinante della fotografia, alla definitiva morte del paesaggio ideale e alla nascita del paesaggio in accezione moderna e contemporanea.

Elemento di raccordo fra tanti elementi storici ed espressivi è giocato dal carattere linguistico della fotografia, ossia dalla sua capacità di mantenersi sempre in equilibrio instabile fra documentazione del vero e sua interpretazione formale, poli che, nella loro peculiarità di indice e di icona, hanno reso possibile ad Avondo studioso, di ricorrere al mezzo quale prezioso strumento di indagine storico artistica, di conoscenza, di valorizzazione e di tutela delle collezioni torinesi del Museo Civico, di cui fu direttore dal 1890 al 1910, ma anche, in qualità di artista, di utilizzarne i prodotti quale fonte ispiratrice del proprio fare pittorico.
L’angolo di visuale scelto, che pone al centro dell’interesse gli inediti processi percettivi della conoscenza dischiusi dall’avvento della fotografia, consente inoltre a Cavanna di inserire la storia della fotografia nella storia tout court; egli certo non relega il mezzo nella separatezza afona di una tecnologia avulsa dal proprio contesto, lo riconosce piuttosto come scrittura particolare, capace di contribuire alla definizione culturale di un’epoca, meglio di un periodo storico di lunga durata, com’è quello della meccanizzazione della produzione dell’immagine.
L’unità collezionistica del fondo fotografico Avondo è stata sapientemente ricostruita da Cavanna grazie ad una ricostruzione attenta della biografia e degli interessi di Avondo, elementi sfruttati per individuare, con sufficiente e convincente approssimazione, fotografie e gruppi di fotografie che, eseguite prima o durante il ventennio della direzione Avondo al Museo Civico (1890-1910), sono chiaramente riferibili, per i loro soggetti e la relativa cronologia, alle pubblicazioni sull’arte piemontese promosse dallo studioso, alle iniziative culturali cui egli prese parte, al grande progetto e alla successiva realizzazione del restauro integrale, e filologicamentre condotto, del castello di Issogne.
Completa l’imponente corpus avondoniano, un importantissimo fondo di immagini paesaggistiche della Campagna Romana, realizzate in calotipia da autori vari negli anni Cinquanta del XIX secolo giustamente riferito da Cavanna ad Avondo per l’innegabile ‘genealogia culturale’ che lega queste fotografie ai dipinti e ai disegni di Avondo degli anni romani.
Si tratta di trentasette carte salate, del tutto inedite, attribuite in prevalenza da Cavanna alla mano di Giacomo Caneva ed acquistate da Avondo durante il suo soggiorno a Roma, databile fra il 1856 e il 1861.
Come è avvenuto con Aaron Scharf che già nel 1968 aveva individuato alla base del cambiamento di stile di Corot, la suggestione offerta dalla coeva fotografia francese di paesaggio, così Cavanna riconnette ora l’improvviso cambiamento stilistico di Avondo al ruolo determinante giocato dalla fotografia romana di paesaggio, in particolare per la resa aerea e sfumata dei vicini, raffigurati come lontani, per la riduzione dei mezzi espressivi e per il generale verismo rappresentativo.
Ovviamente all’analisi stilistica è sempre accompagnata una serie di osservazioni storiche fra le quali spicca il riferimento all’incontro di Avondo con la pittura naturalistico romantica dei pittori di Barbizon, anch’essi, si può aggiungere, fortemente influenzati dalla contemporanea fotografia di paesaggio fra i cui rappresentanti Cavanna ricorda Le Gray, Le Secq, Marville e Vigier.
Di ritorno dall’Esposizione di Parigi 1855, Avondo, come riporta Thovez, esprime tutta la propria esaltazione emotiva per i paesaggi esposti ed improntati ad un aperto cambiamento di rotta della pittura che, proprio allora, con una frattura violenta e senza ritorno, accoglieva le istanze naturalistiche suggerite dalla fotografia, se non altro con la propria attenzione agli aspetti di una quotidianità casuale e contingente, effimera e discontinua, metereologicamente variegata, colta nell’irripetibile particolarità percettiva di un attimo fuggente.
Chiudono il volume una relazione di Silvia Berselli sull’avvenuto restauro conservativo del fondo ed un’intensa campagna catalografica, sempre di Cavanna, affidata ad un Regesto e Catalogo ragionato delle immagini, scelte come emblematiche della natura del fondo e, pertanto, riprodotte per un più facile accesso ai discorsi generali affrontati nel saggio di apertura.

Marina Miraglia

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L’immagine precaria. Sul dispositivo fotografico

di Jean-Marie Schaeffer, Bologna, Clueb, 2006, pp.196.(Ed. or. L’image précaire. Du dispositif photographique, Paris, Editions du Seuil, 1987)ISBN 88-491-2539-9Euro 18,00

A vent’anni dall’edizione originale, esce in Italia la traduzione del saggio di Jean-Marie Schaeffer, grazie alla cura di Marco Andreani e Roberto Signorini. Scritto in anni particolarmente fecondi per il dibattito sulla natura della fotografia, maturato in un contesto che vede interagire intorno ai Cahiers de la photographie esperienze intellettuali importanti, non a caso – come ben ricorda Signorini – si inserisce sulla scia dei lavori di Henri Van Lier e Philippe Dubois.

Studioso di estetica e teoria letteraria, Schaeffer parte dalla natura indicale della fotografia, attingendo ampiamente all’approccio pragmatico e alla semiotica di Peirce: l’impressione fotografica è una sorta di segno naturale, quindi un effetto materiale piuttosto che l’emissione di un segno (“effetto chimico di una causalità fisica” – scrive). Il segno fotografico, per lo studioso francese è costituito da più componenti, ognuna strutturata in maniera bipolare. Una serie di coppie – indicalità/iconicità, spazialità/temporalità, entità/eventi – definisce un campo di tensioni contrapposte all’interno del quale il segno fotografico può oscillare senza soluzioni di continuità generando diverse dinamiche di ricezione. Da qui l’ambiguità e l’irriducibile “precarietà” del segno fotografico. Certo, sostiene Schaeffer provando a configurare le infinite possibilità semiotiche del ricevente, la fruizione della fotografia nel contesto di una comunicazione sociale è regolata da particolari dinamiche che si possono individuare in “regole normative” che passano attraverso otto strategie: la traccia, il protocollo sperimentale, la descrizione e la testimonianza (dove prevale la funzione indicale); il souvenir, la rievocazione, la presentazione e la mostrazione (dove prevale la funzione iconica). Ciò non toglie che le singole dinamiche di ricezione vengano influenzate comunque e in larga parte da una serie di prerequisiti, dalle disposizioni individuali e culturali dei riceventi.
Schaeffer ritorna su questioni ri-conoscibili e dibattute. Dedica tre lunghi capitoli alla semiosi fotografica. Eppure sembra prepararsi lentamente a voltare pagina. In qualche modo evoca il passaggio dell’ultimo Barthes, nell’approdare all’irriducibilità della fotografia, alla specificità dell’ “arte precaria”. E appunto nel quarto e ultimo capitolo lo stesso autore abbandona ogni remora per affrontare la specificità del “segno selvaggio”. “La bellezza fotografica – scrive – contiene sempre un resto ‘irrazionale’ […]”. Le categorie kantiane, il“bello” e il “sublime”, vengono utilizzate e forzate da Schaeffer. Dalla parte del consumo dello sguardo la distinzione credo si possa accostare bene allo studium e al punctum di Barthes. Lasciando la parola a Schaeffer si chiarisce meglio il parallelo. Da una parte il bello: “La bella immagine è quella in cui lo sguardo si riposa perché vi si ritrova: essa realizza la perfetta omeostasi tra il visto e la visione, essa satura e pacifica il campo quasi percettivo”. Dall’altro il sublime: “L’immagine sublime ha la natura di un esercizio zen: è una pratica di desemantizzazione del mondo, senza che tale esercizio metta in questione le nostre funzioni vitali, come avverrebbe se la desemantizzazione e insieme la derealizzazione toccassero il nostro ‘essere al mondo’ percettivo”. L’autore esemplifica attraverso le conchiglie fotografiche di Edward Weston. Il progetto mistico del fotografo si contrappone decisamente alle associazioni erotiche dello sguardo dello spettatore. Ancora Schaeffer, “L’immagine fotografica è la risultante di un atto in cui uno sguardo e il ‘mondo’ si sono incontrati: ma questa risultante conserva la traccia della ‘risposta’ del reale allo sguardo e non quello sguardo stesso nella sua specifica intenzione”.
La fotografia, oltre le intenzioni del fotografo, apre a un reale finalmente “profano”. L’impossibilità di una semplice lettura estetico-simbolica è iscritta in una ricchezza collocata altrove: nel riaffiorare dell’impronta con la sua contingenza, “in una discesa da quel segno verso il brusio della traccia visiva da cui proviene”. Ecco la fotografia “che si accontenta di essere ciò per cui si offre”, con tutta la sua forza “laica” che funziona come strumento di liberazione produttiva prima per lo stesso studioso, poi per lo sguardo del fotografo, oltre che dello spettatore.

Giovanni Fiorentino

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Fucked Up

A cura di Gianluigi Ricuperati con postfazione di Marco Belpoliti, Milano, Rizzoli, 2006, pp.148ISBN 88-17009-41-5Euro 8,60

La guerra delle immagini in corso ha in palio, tra l’altro, il controllo dell’immaginario globale e vive di assalti frontali e attentati terroristici, tra televisione e giornali, rete, videofonini e fotografie. Le maglie strette del controllo politico mediale devono fare i conti non solo con gli avversari dichiarati, ma con la natura pervicace dei mezzi di comunicazione personale che funzionano in taluni casi come sismografo di una realtà straordinariamente complessa che finisce per parlare all’Occidente dell’Occidente.

È almeno da segnalare un volumetto sull’argomento: agile, con testi essenziali, costruito dalle immagini fotografiche del recente passato di guerra. Curato dal giornalista Gianluigi Ricuperati e con una postfazione di Marco Belpoliti, si intitola Fucked Up, attingendo a una espressione gergale americana che indica tutto ciò che è strafatto, completamente marcio. Se Belpoliti offre un’ampia cornice storico culturale di riferimento, Ricuperati traccia essenzialmente la storia delle immagini pubblicate, l’esperienza proposta, i problemi che ne emergono. Vale la pena riassumerla.
Nel 2003 il cittadino americano Chris Wilson crea un sito pornografico con fotografie amatoriali inviate spontaneamente da anonimi individui. Quando gli Stati Uniti entrano in guerra, Wilson offre ai soldati impegnati in Afghanistan e in Iraq la possibilità di accedere gratuitamente alle sue pagine web, in cambio dell’invio di scatti presi sul campo di battaglia. Dopo pochi mesi colleziona più di un migliaio di fotografie impressionanti. “L’operazione è un successo: in un unico vertice di bisogni e desideri si combinano un patriottismo delirante, la volgarità minimale delle vite al fronte e l’associazione virtuosa fra porno e violenza”. L’operazione va avanti fino a quando la polizia americana chiude il sito e spicca un mandato di cattura per Wilson.
Questa la storia in sintesi. E le immagini del sito? Il dispositivo espositivo ha una sorta di carattere progressivo che valorizza i protagonisti della comunità virtuale. Le fotografie vengono commentate dagli ‘amatori’. Man mano che si va avanti l’orrore diventa più grande. Prima villaggi distrutti, edifici smembrati, le icone del potere rovesciate. Poi donne soldato con i mitragliatori fra le gambe, sequenze di sesso tra graduati. Procedendo, marines che puntano i fucili, iracheni stesi a terra con una pallottola in corpo. Infine, corpi dilaniati dalle bombe, carbonizzati, tenuti insieme da enormi lacci emostatici. Ecco l’occhio che uccide, il mirino del fucile che coincide con il mirino degli apparecchi fotografici digitali in dotazione, la guerra dal punto di vista del grilletto, il trofeo da ostentare dopo la caccia, ma anche la ferita bruciante da infliggere all’occhio che riposa altrove.
Il problema non è quanto siano cattivi i soldati. Provo insieme a Ricuperati a tracciare l’indice delle questioni che pretendono almeno un principio di discussione. Numero uno: il meccanismo in quanto tale, scambiare foto di morte, sofferenza, guerra con foto pornografiche. Numero due: il contenuto scioccante di alcune delle immagini, ovvero la guerra che è orrore distante dalla vita ordinaria come la conosciamo. Numero tre: la maggior parte dei mezzi di informazione degli Stati Uniti non ha dedicato attenzione a una risorsa di informazione selvatica ma interessante come Nowthatsfuckedup e, per estensione, non mi sembra che la stampa italiana abbia discusso più di tanto il volume in oggetto. La questione numero tre rimanda alla quattro e ai fecondi e ramificati legami tra media e potere. Numero quattro: le istituzioni militari e governative americane si sono preoccupate della vicenda Wilson accusandolo paradossalmente di reati contro il comune senso del pudore. Dell’Iraq, della guerra, dei soldati, nemmeno una riga.
Certo è che la raccolta di immagini confluita nei server, contro ogni piacevolezza del politicamente corretto, offre uno sguardo assolutamente interno dell’esperienza ‘guerra’ e uno sguardo assolutamente predatorio nei confronti dell’ambiente ‘Iraq’. Attraversare le pratiche produttive, espressive, sociali, della comunità virtuale che gravita intorno a Fucked up, per quanto possa ferire gli occhi, la pancia, il cuore e la mente, rende un servizio alla conoscenza dello stato delle cose nel nostro tempo.

Giovanni Fiorentino

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L'Italia del Novecento. Le fotografie e la storia, Il potere da Giolitti a Mussolini (1900-1945), tomo I

A cura di Giovanni De Luna, Gabriele D'Autilia e Luca Crescenti, Torino, Einaudi, 2005, pp. 358.ISBN 88-06172-60-3.Euro 78,00

Quando il Novecento italiano parla, e si racconta, attraverso le immagini – nello specifico le fotografie – allora le stesse immagini diventano fonte che ispira direttamente il discorso storico, piuttosto che mere illustrazioni dei testi. E, appunto, l’opera Einaudi in tre volumi curata da Giovanni De Luna, Gabriele D'Autilia e Luca Criscenti si presenta come una storia fotografica dell'Italia, insolita, innovativa, ambiziosa nell’adottare come struttura portante la costruzione visiva.

Il progetto è scandito da tre capitoli: il primo, l’Italia costruita attraverso l’immagine del potere, il secondo, l’Italia raccontata dai fotografi professionisti e dalle agenzie fotografiche, il terzo, un’Italia degli archivi familiari che oscilla tra memoria pubblica e privata. Il nodo sostanziale – come precisa De Luna nel testo introduttivo – vede il rapporto testo immagine capovolto, con il testo ad assumere per una volta un ruolo ancillare – di servizio – rispetto alle immagini. La fotografia, a prescindere dai documenti scritti, viene prelevata dalla contiguità immersiva della vita quotidiana del Novecento italiano e, da agente di storia che emoziona, orienta, condiziona, si trasforma in fonte per la conoscenza storica nel restituirci frammenti documentali del tempo italiano – con tutta la sua specificità che assomma il lavoro della macchina e dell’uomo. Così l’orientamento dell’opera emerge tutto a partire dal primo volume preso qui in considerazione. L’oggetto è, come illustra il titolo, Il potere da Giolitti a Mussolini (1900-1945), per 350 immagini in bianco e nero che offrono lo sguardo dall'alto, quello istituzionale del potere politico che si autorappresenta, montate in un nuovo contesto in grado di articolare un discorso che apre tutte le possibilità dello sguardo ad andare oltre la superficie. L’occhio si posa in principio sulla fotografia dell’Italia liberale e della Grande Guerra, coadiuvato dal testo di Antonio Gibelli. Quella che si scopre non è l’immagine della battaglia, ma quella della mamma italiana e del marinaio bambino, dei “zecchini” che affiancano i cannoni, di una grande macchina industriale che organizza il consenso. Traspare così il ruolo dello stato che controlla rigorosamente l’immagine attraverso una ricerca che vale una ricchezza iconografica recuperata da fondi fotografici inediti e poco noti come, tra l’altro, quello dell’archivio centrale di Stato di Roma. Poi, lo spazio visivo viene preso dal fascismo, dalle immagini prodotte per lo più dall’Istituto Luce: ci sono gli eventi, la monumentalizzazione dei luoghi, la simbologia, la fisicità della politica, il rapporto tra l’organizzazione dello spazio pubblico e il potere, tutta la dimensione che i corpi hanno assunto nella politica massificata del Novecento. I gerarchi, piazza Venezia, i tricolori al vento, la tradizione littoria, il Milite ignoto con Vittorio Emanuele III piccolo e compito nel saluto militare e Mussolini perentorio nella plasticità del saluto romano. C’è una fotografia di Primo Carnera a chiudere il percorso – seguito da Sergio Luzzatto – L’autoritratto del fascismo. Il campione è ripreso dal basso sulle rocce, fisico imponente, un saluto fascista ostentato e il Vesuvio alle spalle in eruzione. Siamo nel 1939 e basterebbe questa fotografia a rendere l’immagine ufficiale, enfatica, magniloquente, a tratti spettacolare, del regime. La fotografia del pugile al tappeto sconfitto dopo un anno dalla conquista del mondiale, verrà censurata, praticamente non esiste.Sono tutti gli autori dei saggi, insieme a Luzzatto e Gibelli, lo stesso D’Autilia con Ellena, Mignemi, Perrone, a capovolgere prontamente la direzione di marcia, scomponendo la monumentalità delle immagini e moltiplicando la direzione degli sguardi. Magari recuperando fotografie censurate e mai rese pubbliche da Ministero della propaganda. Oppure ritornando all’invenzione fascista di una società ideale che propaganda e costruisce il suo uomo nuovo: ancora fotografie del corteo degli sposi a Roma, del matrimonio per radio del soldato italiano in Grecia, le organizzazioni fasciste, il dopolavoro, le piazze, gli stadi, i monumenti, le sfilate dei Balilla, le premiazioni alle donne con più figli. Il tono monocromo del racconto verrà rotto con la seconda parte del testo dedicato all’argomento, la Repubblica porterà la dialettica, la prospettiva – e le immagini – dei partiti.

Giovanni Fiorentino

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Architetture senza architetti: l’idea di spazio nelle fotografie di Federico Vender

a cura di Angelo Maggi (con i contributi di Paolo Aldi e di Laura Dal Prà e la collaborazione di Marino Degasperi), Trento, Provincia Autonoma di Trento - Soprintendenza per i beni storico-artistici, 2006, 288 pp. Euro 25ISBN 88-7702-149-7

Curata da Angelo Maggi, questa monografia mette in luce – con intelligenza e precisione cronologica – il lavoro creativo di Federico Vender (1901 – 1999), diretto ad esiti visivi molto diversi e alternativi, rispetto alle immagini che ne hanno segnato la carriera e la fortuna. Di Vender gli studiosi - e gli appassionati cultori della stagione fotoamatoriale prima e dopo il secondo conflitto – hanno prediletto le inquadrature ‘mediterranee’ dal classico tono alto.

Una visione per così dire ferma e ‘astorica’ del nostro paesaggio e dei nostri emblemi sociali : le bagnanti, i ragazzi, i famosi volti femminili in primo piano, d’impronta nordica, il rigore dei nudi, i muri ed i prati dalla lineare lucentezza. Vender era il più ‘cavalliano’ tra gli aderenti al Gruppo La Bussola. Del maestro Giuseppe Cavalli portava all’estremo, nelle proprie immagini, il generoso tentativo teorico: estrarre dal quotidiano i toni eterni dell’arte, superando idealisticamente il peso di ogni descrizione ottica controversa... ed omettendo ogni riflesso della drammaticità di uno tra i periodi culturali più oscuri dell’Italia. Ma Federico Vender – che si dedicò alla professione di fotografo solo nel 1950, un ventennio dopo il suo esordio come autore, subito noto nei saloni europei – possedeva per così dire una seconda linea di interesse visivo, forse derivata dall’influsso del lavoro del fratello Claudio (1904 – 1986), architetto e notissimo esponente del razionalismo italiano: cioè le architetture. O meglio la folla di strutture e volumi artificiali, di manufatti urbani spesso anonimi, che segnavano in tutta Europa lo sviluppo della società industriale.Cantieri, passerelle e sottopassi, pareti in luce radente, assolati piani d’asfalto o cemento... rappresentano un’altrettanto severa risposta compositiva proprio all’accademia ‘salonista’ che era maggioritaria, sulle pagine delle foto-riviste e sui cataloghi delle mostre, appunto tra gli anni Trenta e i Cinquanta. Così Vender, con più di un occhio all’innovativo rigore di matrice Bauhaus, diventa anche l’autore più attento alle scuole visive mittel-europee: la Germania nei suoi fervori pre-nazismo ,da Moholy-Nagy a Renger-Patzsch, l’Ungheria di Kertesz o di Munkacsi, i segni diagonali del ‘sovietico’ (ma non troppo ) Rodcenko. Vender viaggia e fotografa in Europa, ma applica spesso i suoi ritmi severi anche alla nostra patetica provincia. Sagrati, piccole impalcature di tubi, angoli di finestre, aree verniciate di fresco alla Fiera Campionaria di Milano. Giustamente definite ‘architetture senza architetti’, queste riprese riescono però a possedere una indimenticabile struttura bidimensionale e svelano un implicito progettista, che è lo stesso Vender. Proprio perchè è svincolato, nelle sue scelte visive, da ogni obbligo di committenza, Vender si permette anche di contraddire le classiche pretese di tutti gli architetti. Mentre essi vorrebbero i volumi deserti, immobili nel sole, senza traccia di abitanti, Vender gioca il suo rapporto ‘prospettico’ tra spazi e persone. Ombre, piccoli passanti, figure un po’ metafisiche, come altrettanti ‘noi stessi’ che entrano nelle inquadrature e fanno vivere gli ambienti. Ecco, forse in questo recupero della misura umana nello spazio dell’architettura, rivive l’integrale qualità creativa del nostro autore. La memorabile Italia minore che trascorre fugacemente nelle inquadrature di Vender si rivela alla fine come lo specchio di una vitalità ancora inespressa. La ritroviamo anche in molte riprese non pubblicate nel volume, o nei provini che appaiono nel testo introduttivo, testimonianza di un grande fervore produttivo ( Il patrimonio totale, dopo una radicale auto-censura, lasciato dall’autore nel 1993 alla Provincia di Trento assomma a 676 stampe originali, 2325 negativi bianconero e 300 diapositive a colori).Interessante è anche l’idea di Maggi nel confrontare gli integrali fotogrammi di Vender con i tagli – molto misurati – presenti negli ingrandimenti definitivi. Vender si prepara a raccontare, in sostanza, tra luce ed ombra, un paese che si sta trasformando nel profondo. Le migrazioni interne, i primi segni del boom economico, le ferite dei cantieri sulla natura, l’inurbamento e lo spopolamento delle campagne...( altre immagini, altri fotografi autori saranno pronti a continuare ed approfondire la sua indagine ).

Cesare Colombo

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Feedback. Scritti su e di Franco Vaccari

A cura di Nicoletta LeonardiMilano Postmedia books, 2007pp. 175ISBN 8874900333Prezzo € 18,60

“La fotografia non come rappresentazione ma come suscitatrice di azioni”: così, con una sua stessa frase, potrebbe essere descritta in sintesi la particolare poetica del fotografico di Franco Vaccari.Di questo artista, uno dei più significativi protagonisti del clima delle neo-avanguardie instauratosi a partire dagli anni sessanta-settanta, vengono ora ripubblicati numerosi scritti, accanto ad alcuni importanti contributi critici su di lui, in questo volume felicemente curato da Nicoletta Leonardi per le edizioni Postmedia books.

Il libro è uscito in occasione della retrospettiva di Vaccari appena conclusasi presso lo Spazio Oberdan di Milano, curata da Leonardi assieme a Vittorio Fagone, che ha permesso di ripercorrere circa trent’anni di carriera dell’artista modenese.
La prima parte del testo raccoglie i contributi su Vaccari, pubblicati dagli anni sessanta agli anni ottanta da Adriano Spatola, Gillo Dorfles, Daniela Palazzoli, Renato Barilli, Pietro Bonfiglioli, Roberta Valtorta, Adriano Altamira e Claudio Marra; nella seconda parte si possono invece rileggere ben ventotto scritti di Vaccari, usciti spesso su riviste e cataloghi oggi difficilmente rintracciabili. Il volume è arricchito da una bibliografia e da un apparato illustrativo che riproduce buona parte dei lavori esposti alla retrospettiva di Milano.
Franco Vaccari è uno degli artisti italiani che più si è avvicinato a quell’area di ricerca variamente definita con le etichette del concettualismo, dell’arte comportamentale e della Narrative art, area tesa al superamento delle categorie tradizionali di opera e di rappresentazione, per lavorare su uno spettro estetico più allargato, che comprende le azioni, i gesti, le immagini del quotidiano per quanto banale ed effimero, oltre che il rapporto attivo con lo spettatore.Nel contesto di questo lavoro, che prevede l’uso di svariati linguaggi e materiali, la fotografia ha un ruolo centrale, esemplificato dalla più famosa delle opere dell’artista, quella “Esposizione in tempo reale” in cui egli mise a disposizione del vasto pubblico della Biennale di Venezia del 1972 una cabina per fototessere, con la quale chiunque poteva realizzare un proprio autoritratto istantaneo e affiggerlo alla parete, allo scopo di lasciare una traccia fotografica del proprio passaggio. Già questo lavoro ci fa comprendere la natura appunto di traccia, di segno impersonale e collettivo, che ha per Vaccari la fotografia, all’estremo opposto di una concezione autoriale e stilisticamente connotata del mezzo fotografico. Nulla di più lontano dallo sguardo del grande fotografo che isola un istante privilegiato, un momento eccezionale incorniciato dalla sapiente costruzione formale dell’immagine (attitudine che nel Novecento è rappresentata in maniera sublime dalla poetica del “momento decisivo” di Cartier-Bresson).
La presentazione degli scritti dell’artista accanto alle testimonianze critiche che con più attenzione hanno accompagnato il suo lavoro è molto preziosa, in quanto testimonia di un altro tratto significativo del suo procedere, ovvero del duplice fronte su cui lavora da sempre: la creazione artistica da una parte e la riflessione teorica dall’altra. Atteggiamento questo che lo accomuna a molti artisti delle neoavanguardie e anche agli scrittori e ai letterati di quella stagione.Proprio tra questi due versanti del lavoro ormai trentennale di Franco Vaccari si stabilisce infatti, secondo la curatrice del volume, quel feedback, quel dialogo continuo tra due poli cui è ispirato il titolo del libro. Un concetto, questo di feedback, che è del resto centrale a tutto il suo operare, inteso anche come dialogo tra l’opera e lo spettatore, tra l’immagine e il fruitore, tra l’idea dell’artista e le reazioni, a volte imprevedibili, che essa suscita in un contesto collettivo.
Alcuni dei saggi critici raccolti nel volume sono particolarmente incentrati sull’uso della fotografia: è il caso del testo di Adriano Altamira “Il collezionista di immagini”, che vede Vaccari come raccoglitore e classificatore di immagini trovate o create da anonimi operatori su sua sollecitazione (è il caso delle Photomatic, le cabine per fototessera usate da Vaccari), analogamente ad altri artisti che hanno usato la fotografia in tal senso, quali Annette Messager o i coniugi Becher. Oppure della recensione firmata da Roberta Valtorta del saggio di Vaccari “La fotografia e l’inconscio tecnologico” (Modena, Punto e Virgola, 1979), testo che viene messo in rapporto con il pur diversissimo “Sulla fotografia” di Susan Sontag per analoga ampiezza di orizzonti e verve polemica. Ancora su temi di interesse fotografico è la presentazione, da parte del poeta visivo Adriano Spatola, di un volume dell’artista modenese, intitolato “Tracce” e consistente in una raccolta fotografica di anonimi graffiti urbani: ma per Spatola, la distanza con analoghe imprese (i graffiti di Brassaï, le foto dei muri di Siskind) è nel carattere impersonale del dispositivo fotografico, mentre non interessa nessuna forzatura stilistica e tecnica rispetto alle possibilità del mezzo stesso.
Ciò che invece colpisce nei saggi scritti in prima persona da Vaccari è la natura assai eterogenea dei suoi intereventi, che non riguardano solo il suo lavoro e la sua poetica, ma che ce lo mostrano come osservatore lucido e attento della realtà artistica, politica e sociale attorno a lui. Contributi a volte criticamente scomodi e polemici sulla fotografia (la recensione di un album fotografico sull’Africa, che ne smaschera la costruzione coloniale dello sguardo), riflessioni sull’architettura e il design nell’età postmoderna, prese di posizione sull’arte degli anni ottanta, così lontana dal lavoro di Vaccari nella sua resa euforica al mercato e ai miti dell’artista romantico e ingenuamente creativo: sono testi brevi ma illuminanti, che fanno dell’artista modenese una figura quanto mai interessante anche sul versante della critica.

Indice del volume

p. 7 Introduzione di Nicoletta Leonardi

Scritti su Franco Vaccari

p. 17 Adriano Spatola – Testo introduttivo al volume Le tracce (1966)
p. 23 Gillo Dorfles – Le Immagini captate di Franco Vaccari (1970)
p. 25 Daniela Palazzoli – La placenta azzurra (1972)
p. 29 Renato Barilli – Testo introduttivo al volume Esposizione in tempo reale (1973)
p. 32 Adriano Altamira – I viaggi di Franco Vaccari (1976)
p. 36 Adriano Altamira – Il collezionista d’immagini (1976)
p. 40 Pietro Bonfiglioli – Franco Vaccari (1976)
p. 46 Roberta Valtorta – Al centro di una catastrofe semantica (1980)
p. 47 Claudio Marra – Dilatazioni mentali e riscatto dell’inutile (1981)
p. 49 Renato Barilli – Franco Vaccari, opere: 1966-1986 (1987)

Scritti di Franco Vaccari

p. 105 Note di Franco Vaccari (1972)
p. 108 Appunti per una teoria dei libri oggetto (1973)
p. 110 Analisi dell’esposizione in tempo reale Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio (1974)
p. 113 Sulla metafora (1976)
p. 114 Il buco nella lingua, conversazione tra Franco Vaccari e Pietro Bonfiglioli (1977)
p. 118 Fotografia (1977)p. 119 Duchamp e l’occultamento del lavoro (1978)
p. 123 Il movimento tortuoso e opaco del senso (1979)
p. 125 Myrrholin Welt-Panorama (1981)
p. 128 Dietro la facciata post-moderna (1983)
p. 130 Mega bit e il sogno (1985)
p. 132 Visibilità e regole dell’etichetta (1987)
p. 134 Design-Cose (1989)
p. 136 Puer e Senex nell’arte degli anni Ottanta (1990)
p. 139 Migrazioni del reale (1990)
p. 141 L’arte e il muro della profezia (1991)
p. 145 Codice a barre – Il segno dei tempi (1991)
p. 146 Sul codice a barre (1991)
p. 147 Fotografia: tra teologia e tecnologia
p. 148 Apollo e Dafne: un mito per la fotografia (1995)
p. 150 Su un episodio di identità elastica (1996)
p. 151 Fotografare, guardare, sapere (1996)
p. 157 Maschere, fotoritratti, identikit (1996)
p. 161 Picasso e le monete celtiche (1998)
p. 163 Il difficile compito dell’artista (2000)
p. 167 Qualche aggiustamento di opinione (2000)
p. 169 Postmodern art ed erotismo (2004)
p. 172 Bibliografia a cura di Giovanni Franchino


Alessandro Oldani

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lunedì 14 maggio 2007

Sguardi dall'Europa. Le società fotografiche e gli studi sulla fotografia

Reggio Emilia 2 maggio 2007 Società italiana per lo studio della fotografia

Novità! Sul sito SISF puoi leggere la relazione di Kerstin Stremmel della "Deutsche Gesellschaft für Photographie" (DGPh)

Per maggiori informazioni visita questa pagina sul sito ufficiale della SISF

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Orientamenti e prospettive degli studi sulla fotografia in Italia

Società Italiana per lo Studio della Fotografia con Istituto Nazionale per la Grafica

Per maggiori informazioni visita questa pagina sul sito ufficiale della SISF

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Università e didattica

La commissione si pone l’obiettivo di sensibilizzare il mondo accademico nei confronti della fotografia promovendone la presenza e il consolidamento all’interno degli Atenei italiani. Intende promuovere una serie di proposte operative, relative ai problemi dell’inquadramento disciplinare, alla realizzazione di strumenti didattici e di ricerca condivisi, ai problemi delle biblioteche e dei laboratori, alla realizzazione di una banca dati delle tesi e di un osservatorio degli insegnamenti.

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Strumenti di comunicazione

Il gruppo di lavoro ha in prima istanza il compito di creare, curare e sviluppare gli strumenti di comunicazione della SISF (sito internet, comunicazioni ai soci, ecc.). In seconda istanza si propone di sviluppare la riflessione sulle modalità e contenuti della comunicazione nel settore.

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Professionalità di settore

Prende le mosse dalla esigenza di ridefinire e formare in modo diverso la figura del curatore di collezioni fotografiche, nonché i profili professionali specifici e necessari a una raccolta fotografica museale, a partire dal particolare status “disciplinare” della fotografia, non rigidamente definibile e quindi anche difficilmente disciplinabile. Si propone di contribuire al dibattito in corso sulla Carta nazionale delle professioni museali.

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Fototeche

Ha in programma un approfondimento degli studi sulla particolare tipologia dei fondi archivistici “misti” (documenti cartacei, a stampa e fotografie) che caratterizza gran parte delle Fototeche degli storici dell’arte e dei restauratori.

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Fonti fotografiche per la storia

Si propone di compiere una attività per la valorizzazione delle fonti fotografiche promovendo la riflessione critica sull’uso di tali fonti da parte degli storici; favorendo la definizione di precisi protocolli di pubblicazione delle fonti da introdursi ad ogni livello dell’attività editoriale nel settore; promovendo strumenti essenziali per la ricerca storica nel settore.

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Deontologia

Si propone di rispondere al problema della responsabilità scientifica e sociale, condivisa tra i cultori degli studi di fotografia, stabilendo un minimo di principi generali e di norme specifiche al fine di servire come orientamento autorevole per coloro che si identificano con la disciplina degli studi di fotografia, fermo restando il rispetto dei codici deontologici ai quali si riferiscono le singole professionalità coinvolte.

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Conservazione e restauro

Si propone di costituire punto di riferimento e strumento di sollecitazione per sviluppare una riflessione comune e una maggiore sensibilità nei confronti della disciplina del restauro e della conservazione della fotografia e delle relative professionalità.

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Biblioteca e segnalazioni bibliografiche

Ha per obiettivo quello di provvedere ad una informazione sistematica e alla promozione di un vaglio critico della produzione bibliografica nazionale e, per quanto possibile, internazionale sul tema della fotografia.

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SISFOTOGRAFIA.BLOGSPOT.COM

Nasce il blog della Società Italiana per lo Studio della Fotografia. Uno spazio di discussione aperto. Per saperne di più sulla Società visita il SITO UFFICIALE.

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