di Paolo Mussat Sartor, Torino, Edizioni Fondazione Torino, 2006, pp. 264.ISBN 88-99103-57-0Euro 40,00
Il libro/catalogo, molto diverso dall’omonima mostra (19 maggio –24 settembre 2006) – tagliata principalmente sul lavoro più recente dell’autore torinese – lavora sui .diversi nodi tematici ed espressivi che Mussat Sartor ha affrontato nel tempo, a partire dal concettuale di cui è stato, com’è noto, testimone, nonché consapevole e raffinato interprete. Artisti, amici, critici (nell’ordine: Paolini, Miraglia, Bona, Camerana, Lugli, Hardy, Bellini, Anselmo) e lo stesso Mussat Sartor hanno commentato, con tratto leggero e niente affatto accademico, ciascuna di queste sezioni, capaci di ricondurci all’indietro fino agli esordi, ossia agli intensi ritratti degli artisti dell’arte povera torinese, con i quali e accanto ai quali, Mussat si trovò a lavorare, appena ventenne, nella galleria di Gian Enzo Sperone.
Il clima di queste prime opere è quello definito da Filiberto Menna come linea analitica dell’arte, con riferimento alla tendenza tipica dell’epoca di riflettere e sperimentare sugli strumenti e i segni del medium adoperato, campo in cui, proprio in quegli anni, Ugo Mulas si distinse con le sue ‘Verifiche’ e Mussat Sartor cominciò a stabilire quello stretto legame di unità fra tensioni emotive o formali e razionalità del progetto che, mi sembra, abbia poi attraversato tutto il suo percorso artistico, anche se, ovviamente, gli aspetti razionali si sono sempre più sciolti e stemperati nell’indifferenziata liquidità dell’attuale realtà postmoderna.
Insieme ai ritratti, non solo quelli più precoci (a partire dal 1968), ma anche quelli più recenti, fino agli anni Novanta, l’autore ci propone, fra l’altro, Natura (1973), una serie di Viaggi (1976-2002), Istantanee Multiple (1973- 1992) – in effetti ancora ritratti e autoritratti – e ancora, Magicacittà (Torino 1980) e, in fine, le opere più attuali, come Rose, Gambe, pietre, Asimmetrici e Figure, eseguite a partire dalla fine degli anni Novanta, nel rutilante variare di forme, ora pesanti e spesse di significati ancor fortemente realistici, ora decisamente più leggere ed elastiche.
Il fotografo sembra convinto che “il mondo, tutto il mondo, sta davanti agli occhi”, e che la coerenza dei propri discorsi non dipenda affatto dalla ripetizione di un tema unico o da un’attenzione dedicata ossessivamente a un determinato oggetto referenziale; più che di eclettismo, come pure è stato detto, si potrebbe allora parlare di un linguaggio più contemporaneo e postmoderno, malgrado l’uso strettamente classico del mezzo nella sua accezione analogica.
Due elementi contribuiscono a rendere verosimile questa lettura. In primo luogo il titolo scelto dall’autore per indicare il senso unitario e la proiezione in avanti del proprio lavoro che, visto nella sua prospettiva passata, presente e futura, è un Viaggio continuo, un fare inteso come scavo conoscitivo perenne, che non può concludersi se non con la nostra morte fisica e che il quotidiano interesse per la realtà personale ed epocale, in direzione culturale, rende nel bene e nel male, negli incontri umani e visivi, reali e virtuali, sempre perenne con i suoi stimoli.
Il secondo elemento è costituito dall’uso spregiudicato della pittura, stesa, con variazioni cromatiche e strati diversi, sulla pellicola fotosensibile e sul grandissimo formato dell’opera, quasi a sottolineare la nuova realtà artistica e la continuità funzionale – nel campo della comunicazione e della creatività – fra tecniche passate e presenti, manuali o meccaniche, ambiguamente ibridate in esiti che spesso nascono dalle proprie stesse radici.
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