sabato 29 settembre 2007

L’immagine precaria. Sul dispositivo fotografico

di Jean-Marie Schaeffer, Bologna, Clueb, 2006, pp.196.(Ed. or. L’image précaire. Du dispositif photographique, Paris, Editions du Seuil, 1987)ISBN 88-491-2539-9Euro 18,00

A vent’anni dall’edizione originale, esce in Italia la traduzione del saggio di Jean-Marie Schaeffer, grazie alla cura di Marco Andreani e Roberto Signorini. Scritto in anni particolarmente fecondi per il dibattito sulla natura della fotografia, maturato in un contesto che vede interagire intorno ai Cahiers de la photographie esperienze intellettuali importanti, non a caso – come ben ricorda Signorini – si inserisce sulla scia dei lavori di Henri Van Lier e Philippe Dubois.

Studioso di estetica e teoria letteraria, Schaeffer parte dalla natura indicale della fotografia, attingendo ampiamente all’approccio pragmatico e alla semiotica di Peirce: l’impressione fotografica è una sorta di segno naturale, quindi un effetto materiale piuttosto che l’emissione di un segno (“effetto chimico di una causalità fisica” – scrive). Il segno fotografico, per lo studioso francese è costituito da più componenti, ognuna strutturata in maniera bipolare. Una serie di coppie – indicalità/iconicità, spazialità/temporalità, entità/eventi – definisce un campo di tensioni contrapposte all’interno del quale il segno fotografico può oscillare senza soluzioni di continuità generando diverse dinamiche di ricezione. Da qui l’ambiguità e l’irriducibile “precarietà” del segno fotografico. Certo, sostiene Schaeffer provando a configurare le infinite possibilità semiotiche del ricevente, la fruizione della fotografia nel contesto di una comunicazione sociale è regolata da particolari dinamiche che si possono individuare in “regole normative” che passano attraverso otto strategie: la traccia, il protocollo sperimentale, la descrizione e la testimonianza (dove prevale la funzione indicale); il souvenir, la rievocazione, la presentazione e la mostrazione (dove prevale la funzione iconica). Ciò non toglie che le singole dinamiche di ricezione vengano influenzate comunque e in larga parte da una serie di prerequisiti, dalle disposizioni individuali e culturali dei riceventi.
Schaeffer ritorna su questioni ri-conoscibili e dibattute. Dedica tre lunghi capitoli alla semiosi fotografica. Eppure sembra prepararsi lentamente a voltare pagina. In qualche modo evoca il passaggio dell’ultimo Barthes, nell’approdare all’irriducibilità della fotografia, alla specificità dell’ “arte precaria”. E appunto nel quarto e ultimo capitolo lo stesso autore abbandona ogni remora per affrontare la specificità del “segno selvaggio”. “La bellezza fotografica – scrive – contiene sempre un resto ‘irrazionale’ […]”. Le categorie kantiane, il“bello” e il “sublime”, vengono utilizzate e forzate da Schaeffer. Dalla parte del consumo dello sguardo la distinzione credo si possa accostare bene allo studium e al punctum di Barthes. Lasciando la parola a Schaeffer si chiarisce meglio il parallelo. Da una parte il bello: “La bella immagine è quella in cui lo sguardo si riposa perché vi si ritrova: essa realizza la perfetta omeostasi tra il visto e la visione, essa satura e pacifica il campo quasi percettivo”. Dall’altro il sublime: “L’immagine sublime ha la natura di un esercizio zen: è una pratica di desemantizzazione del mondo, senza che tale esercizio metta in questione le nostre funzioni vitali, come avverrebbe se la desemantizzazione e insieme la derealizzazione toccassero il nostro ‘essere al mondo’ percettivo”. L’autore esemplifica attraverso le conchiglie fotografiche di Edward Weston. Il progetto mistico del fotografo si contrappone decisamente alle associazioni erotiche dello sguardo dello spettatore. Ancora Schaeffer, “L’immagine fotografica è la risultante di un atto in cui uno sguardo e il ‘mondo’ si sono incontrati: ma questa risultante conserva la traccia della ‘risposta’ del reale allo sguardo e non quello sguardo stesso nella sua specifica intenzione”.
La fotografia, oltre le intenzioni del fotografo, apre a un reale finalmente “profano”. L’impossibilità di una semplice lettura estetico-simbolica è iscritta in una ricchezza collocata altrove: nel riaffiorare dell’impronta con la sua contingenza, “in una discesa da quel segno verso il brusio della traccia visiva da cui proviene”. Ecco la fotografia “che si accontenta di essere ciò per cui si offre”, con tutta la sua forza “laica” che funziona come strumento di liberazione produttiva prima per lo stesso studioso, poi per lo sguardo del fotografo, oltre che dello spettatore.

Giovanni Fiorentino

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